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 2016  aprile 07 Giovedì calendario

L’ammiraglio Credendino, che guida l’operazione navale europea Sophia, dice che ci sono 200 mila potenziali migranti pronti a salpare

Una bambina è sempre nei pensieri degli uomini della missione navale europea, nel mare che guarda la Libia. Sophia è nata il 24 agosto 2015 sulla fregata tedesca Schleswig-Holstein. «37° di latitudine Nord e 16°27’ di longitudine Est», si legge sul certificato di nascita. La madre Rahma, 33 anni, somala, era stata salvata in uno dei primi interventi di soccorso di «Eunavfor Med», l’operazione lanciata dalla Ue per smantellare la tratta di esseri umani, dopo il naufragio del 18 aprile 2015 nel Canale di Sicilia. Ottocento morti. Oggi Sophia vive in Germania. La missione porta il suo nome, hanno deciso gli uomini e le donne sul mare.
«Eunavfor Med-Operazione Sophia» ha alla testa un italiano, l’ammiraglio Enrico Credendino, 53 anni, torinese, già capo della missione «Atalanta» contro i pirati somali. Oggi, dice, «è orgoglioso di guidare la prima operazione navale europea per salvare vite nel Mediterraneo, nel rispetto dei diritti umani e del principio di non respingimento»: 24 Paesi, 1.545 uomini, 5 unità navali, 6 elicotteri. Sono 63 gli scafisti arrestati dal mese di giugno 2015, 101 le imbarcazioni neutralizzate, 12 mila i migranti salvati più altri 26 mila soccorsi in collaborazione con altre missioni.
Abbiamo intervistato l’ammiraglio Credendino nella sede del Corriere a Milano.
Nel 2015 più di un milione di persone ha raggiunto l’Europa attraverso la rotta balcanica. Una rotta che ora, con l’entrata in vigore dell’accordo Ue-Turchia, di fatto è chiusa. I viaggi dei migranti dalla Libia potrebbero riprendere. Cosa dobbiamo aspettarci?
«Oggi in Libia ci sono almeno 200 mila potenziali migranti, ai quali si aggiungono 200 mila rifugiati mediorientali ormai da anni nel Paese, più 40 mila sfollati interni. Con la chiusura della via balcanica possono riattivarsi soprattutto due rotte via mare: quella da Siria e Libano che passa a Sud di Creta per raggiungere l’Italia e quella dei migranti africani che risalgono da Sudan e Ciad per salpare dalle coste libiche verso l’Italia».
La presenza crescente dei terroristi dell’Isis e il caos politico non rendono più difficile attraversare la Libia?
«È diventato più difficile per i cristiani. Gli altri profughi e gli stessi trafficanti devono pagare ai terroristi una sorta di pedaggio. Superato questo ostacolo, si passa».
Cosa fate in concreto per fermare la tratta?
«Dal 7 ottobre la missione è nella fase 2-Alpha: possiamo operare solo in acque internazionali, a 12 miglia dalle coste libiche. Per poter passare alla fase 2-Bravo, che consente l’intervento anche in acque territoriali libiche, dobbiamo aspettare l’invito del governo di Tripoli. Per alcuni Paesi, occorre anche l’autorizzazione dell’Onu. Ora che con l’arrivo del premier Fayez Serraj la situazione politica si è sbloccata, confidiamo in una svolta a breve. Prima di Sophia gli scafisti uscivano in mare con gommoni e barche di legno che poi lasciavano al largo in attesa dei soccorsi – un gommone può trasportare in media 100-150 persone, una barca di legno tra le 400 e le 500. Oggi a causa nostra non ce la fanno più a raggiungere le acque internazionali, infatti gli arrivi dalla Libia l’anno scorso sono crollati. Abbiamo neutralizzato un centinaio di imbarcazioni ma nelle prossime fasi potremo agire con forza ancora maggiore».
Si stima che in alcune regioni costiere della Libia il 50% dell’economia sia legato alla tratta dei migranti. Questo non aiuta il vostro lavoro. Per di più la «fase 3» prevede interventi di terra e tra gli obiettivi c’è la distruzione delle barche, che per la popolazione sono una risorsa. Pensiamo alla pesca.
«L’Unione Europea ha destinato cento milioni di euro alla Libia proprio per compensare le perdite connesse all’indebolimento del business dei trafficanti. Non vogliamo distruggere le barche ma toglierle dal mare, dove mettono in pericolo i mercantili, e soprattutto sottrarle agli scafisti, per poterle poi recuperare per usi civili. I libici hanno un mare ricchissimo, eppure hanno smesso di pescare».
Com’è organizzata la rete degli scafisti? Dopo l’arresto cosa succede?
«Lavorano su tre livelli: i capi, libici, che non vanno in mare; gli operativi, libici o tunisini, che organizzano il viaggio; quelli che portano fuori le imbarcazioni. Sono questi ultimi ad essere stati fermati finora. Oggi solo l’Italia procede agli arresti, diversamente dalla missione antipirateria in Somalia dove agivano tutti i Paesi coinvolti. In assenza di un accordo di trasferimento Ue-Libia, i trafficanti devono essere poi consegnati alla giustizia italiana».
Come valuta l’allarme sui terroristi infiltrati tra i migranti?
«Non ha senso che i terroristi si mescolino ai disperati sulle barche. Hanno il passaporto e possono viaggiare in aereo – lo abbiamo visto. Esiste, certo, la possibilità di attacchi a mercantili con gommoni imbottiti di esplosivo. Per permetterci di contrastare questo tipo di minaccia a Bruxelles si discute sull’ampliamento dei nostri compiti».
Il ministro dell’Interno Angelino Alfano propone di applicare lo schema Ue-Turchia anche ai rapporti con i Paesi africani.
«La gestione della crisi passa dalla cooperazione con Unione africana, Lega araba, singoli Paesi e Nazioni Unite. Non c’è alternativa».
L’immigrazione oggi è un tema che provoca paure ed emozioni. Questo interferisce con il vostro lavoro?
«Il mare ha una sola legge. Se qualcuno è in pericolo, lo salvi».