7 aprile 2016
In morte di Emiliano Liuzzi, bravo giornalista all’antica
Marco Travaglio per il Fatto Quotidiano
Quando muore un giornalista, di lui rimangono i fiori e i frutti di quello che ha seminato con l’inchiostro della sua penna. Emiliano Liuzzi ha seminato molto, più di quanto chiunque di noi potesse immaginare. Non solo con i suoi articoli, ma anche con tutto il resto di se stesso: con la sua umanità. E i ricordi belli e affettuosi di tanti amici, colleghi e lettori sul nostro sito e sui social, e le condoglianze dai personaggi anche più inaspettati, sono solo un piccolo florilegio del raccolto di quella semina. Che si è appena interrotta e già manca a tutti.
Non era un tipo di molte parole, Emil. Quando aveva finito le cose da dire, aveva anche finito di parlare. Bastava un’occhiata, con quel lampo nei suoi occhi azzurrissimi, per intendersi. Anche se aveva solo 46 anni, era un cronista all’antica, d’altri tempi. Di quelli che scarpinano e badano solo alla notizia, senza tanti fronzoli, parole, retorica. Anche se umanamente sono dei buoni e degli inguaribili sentimentali.
Di quelli che conoscono tutti, s’infilano dappertutto, annusano tutto e dunque sanno sempre ogni cosa. Che per tutto il giorno non sai mai dove siano, ma poi in extremis arrivano e scrivono il pezzo all’ultimo tuffo. Che sembra non ci siano mai, invece ci sono sempre. Affidabilissimi nella loro randagia inaffidabilità. Quando aveva per le mani uno scoop – la lista dei massoni quando dirigeva il Corriere di Livorno, l’intervista al pentito della Magliana Maurizio Abbatino e le nuove occupazioni dei brigatisti rossi (per ricordarne solo due) per il nostro Fatto – non se la tirava, anzi sminuiva: “Ci si fa un pezzetto…”.
Non è facile fare cose così serie senza mai prendersi troppo sul serio. E nemmeno farsi amare e rispettare come ci riusciva lui. Aveva le sue idee, le esponeva con franchezza non nelle sue cronache e nelle sue inchieste (i fatti separati dalle opinioni), ma nelle sue comparsate in tv (“Non ci andare, in quella trasmissione, Emil!”, “Facciamo che è l’ultima volta, poi basta” ed era sempre la penultima). Eppure, quando Emil chiamava qualcuno, anche sul fronte più distante dal Fatto, nessuno gli buttava giù il telefono. E tutti, dopo due parole, gli rispondevano con piacere.
Perché Emil sussurrava, non gridava. Sorrideva, non ringhiava. Cercava di capire e solo dopo giudicava. E riportava fedelmente quel che vedeva e sentiva. Perciò le sue interviste e i suoi reportage venivano così bene: perché non dimenticava mai, nemmeno quando dormiva (e dormiva parecchio), che cosa dev’essere un giornalista. Ora che vaga leggero nel paradiso dei livornesi, dove tutto è consentito, anche qualche moccolo, i suoi figli devono essere orgogliosi di aver avuto un padre così, magari lontano ma speciale. Proprio come noi siamo fieri di averlo avuto per collega e amico.
Emil era al Fatto da sei anni. Prima come responsabile della redazione Emilia Romagna del sito, poi a Roma da quando nacque il numero del lunedì, che curava con amore e passione insieme a un pugno di colleghi scrivendo anche cinque o sei pezzi alla settimana (oltre a quelli per il quotidiano degli altri giorni), lavorando praticamente sempre: 365 giorni all’anno. E mai una lamentela, una pretesa, un pettegolezzo, in un ambiente di servette qual è il nostro. L’idea che non lo vedremo più ciondolare nei corridoi di via Valadier 42 con l’andatura dinoccolata, il naso allegro da italiano in gita, la barba da fare, i ricci arruffati, il segno del cuscino sulla guancia, lo smartphone incollato tra l’orecchio e la spalla e l’eterna sigaretta appesa al labbro inferiore è ingiusta e insopportabile. Almeno quanto il pensiero che, nei nostri karaoke, non ci canterà più il suo cavallo di battaglia, la struggente e malinconica Io e te di Enzo Jannacci.
L’altra sera, quando se n’è andato, aveva appena provato Eri piccola di Fred Buscaglione per cambiare un po’. Ma era Io e te quella che gli somigliava di più: “Io e te, io e te che ridevamo, io e te che sapevamo, tutto il mondo era un bidone da far rotolare. Sì perché la bellezza dei vent’anni è poter non dare retta a chi pretende di spiegarti l’avvenire, e poi il lavoro e poi l’amore. Sì ma qui che l’amore si fa in tre, che lavoro non ce n’è, l’avvenire è un buco nero in fondo al dramma. Sì, ma allora, ma che gioventù che è, ma che primavera è, e la tristezza è lì a due passi, e ti accarezza e ride, lei”. Ora la canteremo sempre pensando a te, Emil. Tanto, nostro malgrado, ce l’hai fatta imparare a memoria. E ce l’hai pure fatta capire.
Fabrizio Caccia per il Corriere della Sera
Le parole più belle per ricordarlo, ora che Emiliano Liuzzi non c’è più, sono quelle dei tanti amici e colleghi del suo giornale, il Fatto Quotidiano: «Era un uomo senza steccati mentali che parlava a tutti e soprattutto ascoltava tutti – ha scritto ieri Marco Lillo sul sito —. Emiliano era un bravo giornalista all’antica. Non parlava solo con i grillini ma anche con i berlusconiani. Non era in confidenza solo con i magistrati ma anche con gli imputati...». Proprio così. E la sua morte improvvisa, per un infarto, a soli 46 anni, l’altra notte a Roma, ha infatti lasciato sgomenti tutti: «Un giornalista con la schiena dritta», il ricordo dei 5Stelle. Ma pure Silvio Berlusconi («una persona sensibile») e Matteo Salvini («Con lui mi sono confrontato alla tivù, anche aspramente, era onesto e competente») hanno espresso cordoglio. Matteo Renzi lo ha fatto scrivendo di suo pugno al direttore del Fatto, Marco Travaglio. Livornese, due figli, un master in giornalismo alla Columbia University, Liuzzi, già direttore del Corriere di Livorno, era arrivato al Fatto nel 2011 chiamato da Peter Gomez e dal 2013 si era trasferito a Roma per curare la nascita de il Fatto del Lunedì. L’ultimo scoop, a marzo, sull’ex capo delle Br romane, Valerio Morucci, che oggi lavora per una società d’intelligence amministrata fino al 2014 dal suo ex cacciatore: il generale Mario Mori. E in cantiere un libro su Maurizio Abbatino, l’ex boss della Banda della Magliana. Solo fiuto e lavoro, niente retorica. Emiliano Liuzzi, per la sua morte, avrebbe detto così: «Ci si fa un pezzetto».
il Giornale
A Roma è morto improvvisamente, nella notte tra martedì e mercoledì, Emiliano Liuzzi, cronista del Fatto quotidiano. Aveva 46 anni, due figli. Lo ha annunciato il sito del giornale, che ha aperto con la scritta «Ciao Emiliano».
Livornese, professionista dal 1995, con un master alla Columbus University, Liuzzi ha diretto il Corriere di Livorno. Nel 2011 era diventato responsabile della sezione Emilia Romagna de ilfattoquotidiano.it e nel 2013 aveva partecipato alla nascita de Il Fatto del Lunedì. «Ci si fa un pezzetto. Emiliano avrebbe detto così. Diceva sempre così. Faceva sempre così. Perché era un cronista. E così facciamo anche noi, che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo e di lavorarci insieme». Inizia così il ricordo di Liuzzi, che Ilfattoquotidiano.it ha pubblicato in apertura del sito. Nell’articolo, corredato dal ricordo di alcuni colleghi del quotidiano, viene richiamata la biografia che lo stesso Liuzzi aveva scritto per il suo blog: «Sono arrivato al Fatto grazie a Peter Gomez. È il tuo posto, mi ha detto un anziano collega. Probabile che ti stessero aspettando».
Tante le testimonianze di amicizia, ricordi e cordoglio bipartisan online e non soltanto, arrivate dal mondo del giornalismo e dalla politica. Messaggi dai leader di governo e di partito. Il premier Matteo Renzi ha espresso, con un biglietto scritto di suo pugno, il suo cordoglio per la morte di Liuzzi al direttore Marco Travaglio, alla redazione del Fatto Quotidiano e ai familiari del giornalista. Il premier aveva incontrato Liuzzi recentemente. In occasione, un mese fa, dell’intervista con Barbara D’Urso per Domenica Live.
Il presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ha dichiarato: «Di Liuzzi conservo il ricordo di una persona sensibile e di un giornalista capace di discernere le opinioni dai fatti. Ai suoi figli, ai famigliari e alla redazione del Fatto Quotidiano esprimo tutta la mia vicinanza».