Corriere della Sera, 7 aprile 2016
Nel governo si discute di contratti dei lavoratori privati, una partita da 300 miliardi di euro
Da mesi fra il governo italiano e la Commissione europea va in scena una danza indecifrabile se non per pochi esperti. Si discute di decimali, di valori di bilancio stimati attraverso metodi astratti e contestati, di previsioni sul debito o sull’inflazione che non si avverano mai. Fa dunque una strana impressione che fra non molto questo dialogo possa produrre effetti concreti in qualcosa che tutti capiscono: i turni di lavoro, l’organizzazione nelle aziende e la libertà per ciascuna di esse di pagare i dipendenti in modo un po’ diverso dalle concorrenti.
Su nessuna di queste aree la Commissione Ue ha poteri diretti, ma il calendario di primavera è tale da favorire una svolta. Per ora, è partita la fase tecnica di preparazione e non quella politica delle decisioni. Domani il governo dovrebbe varare il Documento di economia e finanza (Def), il quadro di bilancio che mostrerà un calo del deficit e del debito nel 2016 e 2017 molto minore di quanto previsto pochi mesi fa. La Commissione Ue interverrà probabilmente nella terza settimana di maggio: per allora sono attese le sue «raccomandazioni» a ogni Paese, un giudizio sull’applicazione di quelle precedenti, e la decisione su un’eventuale procedura legale contro l’Italia per la deviazione nei conti pubblici.
È tra queste due scadenze che il governo vuole inserirne una terza: un decreto in tre parti per la produttività e la competitività da approvare in Consiglio dei ministri presumibilmente all’inizio di maggio. L’obiettivo tattico è ridurre il rischio che l’Italia torni sotto accusa a Bruxelles per i suoi cronici ritardi nel risanamento e nell’assetto complessivo del sistema. Una nuova riforma può mitigare anche il giudizio negativo sul bilancio. L’obiettivo di fondo – se il premier Matteo Renzi lo conferma – è muovere un passo per rendere il Paese più in grado di competere.
Il pacchetto in preparazione nel governo contiene incentivi agli investimenti delle piccole e medie imprese quotate e alcune semplificazioni amministrative. Ma il cuore coincide con il tema di una «raccomandazione» di Bruxelles, perché riguarda una posta da 300 miliardi di euro l’anno: il monte-salari dei dipendenti privati. Da anni la Commissione Ue chiede all’Italia di spostare i negoziati sui contratti il più possibile dal livello centralizzato – un’innovazione dei primi anni ‘30 del ventesimo secolo – a quello delle singole aziende. E da settimane Palazzo Chigi studia un decreto.
Nel merito, il governo pensa a un’evoluzione graduale, più che a una rivoluzione copernicana. Il progetto dei tecnici del premier, guidati dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini, si basa su due principi: «prevalenza» e «esigibilità».
Il primo comporta che un contratto aziendale possa far premio su quello nazionale in aree come turni e orari di lavoro, organizzazione aziendale, e la parte del salario al di sopra di quanto previsto dalle tabelle nazionali di ciascuna categoria.
Una quota che può valere fra un quinto e un terzo della busta paga potrebbe così essere negoziata fra imprenditore e dipendenti in azienda. Per orari e organizzazione sul posto di lavoro varrebbe lo stesso. Nel progetto di Palazzo Chigi, resta invece affidato ai negoziati nazionali il resto: soprattutto i criteri di sicurezza sul posto di lavoro e la remunerazione «tabellare» di base; il governo non pensa a deroghe al ribasso per questa parte della busta paga, né a un salario minimo orario come in Germania. Il secondo principio è poi l’«esigibilità»: un contratto aziendale vale per legge se è approvato dalla maggioranza dei dipendenti.
In una forma prudente, questo decreto si avvicinerebbe a quanto chiede la Commissione Ue. Oggi l’aumento inerziale dei salari al di sopra dell’inflazione è tale che in poco più di un anno cancella il beneficio di aver abolito la parte lavoro dell’Irap: lo sgravio su quell’imposta aveva tolto oneri da 6,5 miliardi dalle imprese, ma la massa attuale da 300 miliardi dei salari cresce anche di più. Nel frattempo la produttività in Italia è ferma ai livelli di dieci anni fa (vedi grafico), dunque sempre nuovi segmenti del made in Italy finiscono fuori mercato. Fin qui i piani, volti (anche) a facilitare un compromesso in Europa sul bilancio. Si capirà tra breve se arriveranno in porto interi; oppure, come accaduto ai servizi pubblici locali o al recupero delle garanzie bancarie, finiranno svuotati al punto da diventare riforme solo di nome. A Bruxelles contano i fatti.