La Stampa, 6 aprile 2016
Mario Tozzi spiega come è stato scoperto il petrolio lucano
Insieme a molti altri geologi, ero nei cantieri petroliferi che alla fine degli
Anni 80 del XX secolo spuntavano un po’ dovunque nella provincia di Potenza. Le torri di perforazione erano ancora poche e si estraevano campioni (carote) da grandi profondità (circa 5000 m), quasi sempre rocce bianche calcaree ricche di fossili appartenenti al mondo geologico pugliese, ma seppelliti dalle vicende geologiche sotto l’Appennino lucano. Quello era il target petrolifero, la cui ricerca era cruciale, visti i costi (diversi milioni di euro a pozzo, e solo uno su sette è produttivo), tanto da esser costretti a effettuare analisi in pochi minuti, senza avere neppure il tempo di sbagliare. Dentro uno di quei capannoni industriali incontrai i geologi italiani di Total mentre esaminavano campioni del sottosuolo lucano proprio nei pressi di Corleto Perticara. E proprio mentre erano certi di essere vicini a una scoperta straordinaria, il petrolio in Italia, negato da decenni da chiunque se ne fosse interessato (salvo qualche eccezione siciliana e padana).
Solamente qualche pastore lucano aveva notato che, sulle colline di Tramutola, i ruscelli erano spesso coperti da macchie oleose e da agglomerati di materia nera e appiccicosa, i cosiddetti «sips», unica traccia di idrocarburi italici in superficie. Quando arrivarono le compagnie petrolifere straniere, dopo alcuni tentativi autarchici degli Anni Trenta e attratte da royalties tra le più basse del mondo, si sorpresero di come fossero chiari quei segni e di quanto poco ne fosse stato estratto rispetto alle evidenti potenzialità. Non è che non ce ne fosse, è che era nascosto molto più in profondità di quanto si immaginasse, e si potesse estrarre, con le idee e le tecnologie del tempo.
I giacimenti di Tempa Rossa, Monte Alpi e Cerro Falcone sono i più vasti mai scoperti nell’Europa continentale, tanto da essere classificati come giants, cioè giganti. Tutto questo sotto la Val d’Agri, vicino a paesi il cui nome «maledetto» non doveva essere neppure pronunciato, dove c’erano ancora le scope di saggina sotto il letto per tenere impegnato il malocchio durante la notte, le fattucchiere e il ricordo degli studi magici di Ernesto De Martino. Una regione a vocazione eminentemente agricola, pastorale e turistica è stata integralmente stravolta per ottenere una fonte energetica effimera e inquinante come poche altre al mondo. Nuovi concetti di ricerca (play-concepts) e il miglioramento tecnologico hanno cambiato le cose, così in Lucania oggi si estrae un petrolio che un tempo non si pensava nemmeno esistesse. Ma le royalties sono rimaste inspiegabilmente basse, mentre tutto attorno è mutato radicalmente.
In quell’incontro di oltre trent’anni fa venne fuori una carota che proveniva da oltre 5000 metri di profondità e che era tutta porosa e percorsa da fratture. Non era però candida (come le altre), bensì completamente impregnata di petrolio, nera e maleodorante: la prima testimonianza diretta che l’obiettivo era stato centrato. Ancora oggi ho il dubbio che quel campione sarebbe stato meglio farlo sparire per sempre.