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 2016  aprile 06 Mercoledì calendario

Ecco cosa si è deciso al summit sul credito italiano

Il summit di ieri a Palazzo Chigi fra il governatore della Banca d’Italia, il ministro dell’Economia e i vertici dei principali istituti di credito segna un cambio di passo nella gestione della crisi bancaria italiana. Non poteva essere altrimenti. I problemi che da diversi mesi attanagliano il sistema bancario rischiano di precipitare già nelle prossime settimane, con conseguenze molto pesanti sulle prospettive della nostra economia.
Il pericolo immediato è l’aumento di capitale della Banca Popolare di Vicenza, richiesto dalla Banca Centrale Europea, e che dovrebbe concludersi entro la fine del mese. Trovare gli 1,75 miliardi di euro necessari per l’operazione si sta dimostrando più complicato del previsto, a causa della montagna di crediti deteriorati che grava sui bilanci dell’istituto.
Il vero elefante nella stanza è UniCredit, la seconda banca italiana, che ha garantito l’aumento di capitale e che rischia di trovarsi col cerino in mano nel caso in cui nessun investitore volesse acquistare le azioni di Vicenza. Tra le grandi banche europee, UniCredit è una delle più fragili dal punto di vista patrimoniale: l’acquisizione delle azioni invendute di Vicenza rischierebbe di obbligarla a sua volta a cercare nuovo capitale sul mercato, un’operazione a cui potrebbe inevitabilmente accompagnarsi anche un cambio di management.
La ricapitalizzazione della Banca Popolare di Vicenza si accompagna ad altre scadenze cruciali: entro il 30 aprile l’Italia dovrebbe vendere le quattro banche (CariFerrara, CariChieti, Banca Etruria e Banca Marche) salvate alla fine dell’anno scorso e ripulite dai crediti deteriorati. Sono in corso trattative con la Commissione Europea per far slittare questa data, ma resta il pericolo di non riuscire a trovare acquirenti disposti a pagare quanto il governo sperava di recuperare dall’operazione. Nel frattempo, a Palazzo Chigi devono ancora decidere come rimborsare gli obbligazionisti che hanno perso soldi nel bail in delle stesse banche. La scadenza di fine marzo, prevista nella legge di Stabilità, è già passata, ma non è ancora chiaro quando verranno decisi i criteri.
I fronti del governo non finiscono qui: Monte dei Paschi di Siena resta senza un compratore nonostante il crollo del valore delle azioni in Borsa avrebbe dovuto renderla appetibile agli investitori. Carige è nel mirino del fondo americano Apollo, che sarebbe disposto a ripulirla e ricapitalizzarla, ma ci sono timori che il prezzo pagato per i crediti deteriorati diventi poi il benchmark di altre operazioni simili, rendendo più difficile per altre banche liberarsi dei loro fardelli. Veneto Banca deve a sua volta completare un aumento di capitale per un miliardo, un’operazione meno rischiosa di Vicenza ma non priva di incertezze.
Questi casi complessi non possono, però, essere trattati come isolati. Come ha dimostrato l’andamento di questi ultimi mesi in Borsa, lo scetticismo dei mercati finanziari riguarda tutti gli istituti, sui quali grava un’enorme montagna di crediti andati a male. Anche le banche patrimonialmente più forti come Banca Intesa scontano la percezione che in caso di difficoltà sistemiche esse verranno chiamate ad aiutare gli altri, o attraverso eventuali operazioni di salvataggio, o contribuendo ai fondi interbancari come quello di risoluzione o quello di garanzia dei depositi.
Il sentiero su cui si muovono le autorità italiane è estremamente stretto. Da una parte è evidente come il problema cronico di molte banche italiane sia la mancanza di capitale sufficiente ad assorbire la giusta svalutazione dei crediti andati a male. Dall’altra, c’è il rischio che l’interesse degli investitori sia inadeguato, rendendo impossibile chiudere il buco nel bilancio di alcune banche.
Davanti a questo dilemma, è diventato piuttosto comune sentire atti d’accusa nei confronti delle regole europee, che impedirebbero allo Stato di entrare direttamente nel capitale degli istituti di credito per salvarli dalla bancarotta. Le nuove normative, prima fra tutte la Bank Recovery and Resolution Directive in vigore da gennaio, forzano infatti il governo a spalmare le perdite sugli obbligazionisti prima di pensare ad un eventuale intervento statale.
Si tratta di critiche spesso pigre e ingiuste: la logica di questa normativa è quella di evitare che, come accaduto in passato, i contribuenti si accollino le perdite salvando investitori e management.
In Italia, poi, esiste un problema di sostenibilità: con un debito pubblico che supera il 130% del prodotto interno lordo è difficile ipotizzare operazioni di larga scala a sostegno del settore. Infine, le norme non sono ottuse come vengono dipinte. In caso di rischio sistemico, il bail in può essere sospeso, ma è chiaro che questa scelta debba essere accuratamente argomentata.
Per le autorità riunite a Palazzo Chigi, la priorità deve essere quella di accogliere investitori, anche stranieri, disposti a investire nel capitale delle nostre banche con un piano industriale sostenibile. Diverso è il caso della Cassa Depositi e Prestiti, che pure era presente al vertice di ieri: come custode del risparmio postale degli italiani, la Cdp non è un salvadanaio da svuotare a piacimento, anche perché ne andrebbe della credibilità dei suoi vertici. Meglio pensare a un investimento diretto da parte di altri istituti di credito italiano, che comunque sarebbero danneggiati da una eventuale crisi sistemica.
Non esiste una via d’uscita facile da questa situazione. L’importante è che a qualsiasi soluzione si accompagni un vero rinnovamento dei consigli di amministrazione degli istituti di credito, oltre che un loro radicale ridimensionamento. Se le banche italiane sono ridotte in queste condizioni la colpa non può essere soltanto della crisi economica.