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 2016  aprile 06 Mercoledì calendario

A noi non serve Panama, abbiamo le fondazioni politiche

La destra francese e i progressisti islandesi, i conservatori britannici e i comunisti cinesi, i socialdemocratici ucraini e i nazionalisti russi. Le carte di Panama sono affollate di politici d’ogni paese e di tesori in nero intestati a leader, parenti e amici intimi. In questo incredibile censimento delle ricchezze offshore però non compaiono uomini di partito italiani. Come cantava Ivano Fossati, autore pure dell’inno dell’Ulivo vittorioso: «Oh mamaçita Panama dov’è, sull’orizzonte ottico non c’è». E i clan della cleptocrazia nazionale sono “desaparecidi” anche dagli altri leaks che hanno scosso il pianeta: risultano assenti all’appello della lista Falciani, dall’elenco dei conti offshore caraibici o delle società lussemburghesi. Una prova d’onestà? Siamo diventati immuni dalla corruzione? Difficile crederlo. Sembra piuttosto la conferma della tesi del giudice Piercamillo Davigo: in Italia dal 1992 la magistratura ha realizzato una sorta di selezione della specie, eliminando le gazzelle più lente. Le altre sono fuggite di corsa, verso paradisi bancari sempre più lontani.
Da noi i conti svizzeri sono fuori moda da decenni. Gli altri Paesi non hanno avuto un Giovanni Falcone, primo a siglare accordi con la Confederazione permettendo al pool Mani Pulite di scardinare tutte le cassette di sicurezza elvetiche. Da un quarto di secolo i forzieri di Tangentopoli hanno così cominciato un esodo frenetico attraverso i continenti. Alcuni tesorieri avevano diversificato i rifugi. I fiduciari del Pci usavano l’Austria. Quelli della Dc il Liechtenstein. E la modernità del Psi era testimoniata dalla rete di depositi che si era ramificata in Lussemburgo, nelle Isole del Canale fino ad approdare ad Hong Kong dove ancora sventolava la bandiera britannica.
Agli italiani Panama già all’epoca piaceva poco. Sempre citando Ivano Fossati, lì la vita era piena di «trafficanti e rifugiati», con troppi sospetti di riciclaggio. Dopo l’invasione statunitense del 1990, in tanti avevano attraversato il mare fino ai Caraibi e alle filiali locali delle grandi banche europee, passando attraverso rispettabili studi professionali inglesi. Una rotta piena di insidie. Con un solo raid a Londra i magistrati potevano dissotterrare l’intera mappa del tesoro: quello che è accaduto quando una perquisizione negli uffici di David Mills si è trasformata in anni di processi per Silvio Berlusconi. Non a caso, le attività offshore dell’allora Cavaliere – stando alla condanna definitiva – si sono allontanate verso Hong Kong.
Tra rogatorie a grappolo e segnalazioni automatiche antiriciclaggio, i furbetti della politica italiana sono stati obbligati a esplorare mete sempre più esotiche. Nelle intercettazioni di Mafia Capitale si vocifera di un ex sindaco con i soldi in Argentina mentre un altro imputato avrebbe scommesso sul Venezuela. Francesco Belsito è finito alla sbarra assieme a Umberto Bossi per i fondi della Lega dirottati a Cipro e nella remota Tanzania. Parte del patrimonio padano era stata investita in diamanti, facili da trasportare e nascondere. E il gusto dei preziosi sembra condiviso da molti: l’ultima stagione di indagini pullula di lingotti mentre alcuni si concentrano solo sul cash. Mazzette di biglietti da 500 euro infilate persino nel congelatore, come faceva Fabio Rizzi, l’ex senatore e braccio destro di Roberto Maroni. Se proprio operano all’estero, i nuovi marioli sono così cool da scegliere i grattacieli degli Emirati, dove banchieri libanesi con la sapienza mercantile fenicia garantiscono discrezione letteralmente a prova di bomba. E nessun italiano si sognerebbe mai di intestare un deposito a un parente o a un noto collaboratore. L’errore costò caro a Bettino Craxi con il Conto Protezione del suo amico Silvano Larini: un segreto custodito per anni nell’archivio dei ricatti di Licio Gelli. Dal 1993 tra politico e prestanome si cerca di mantenere tutti e sei i gradi di separazione, tanto che il leader Psi ormai prossimo all’esilio si rivolse alla contessa Vacca Agusta e a Maurizio Raggio. Scelte ardite, con il rischio che poi sia difficile stabilire a chi appartengano veramente i soldi.
Adesso però tutte queste grane paiono dimenticate. Dopo avere fatto l’intero periplo del pianeta, i globetrotter del malaffare possono finalmente respirare e tornare a casa. Oggi ci sono le fondazioni politiche, strumento perfetto per gestire bonifici e accrediti, senza dovere mettere in chiaro provenienza dei contributi e uso finale. Da Mafia Capitale agli appalti stradali della Dama Nera, le fondazioni sono diventate protagoniste delle inchieste, il paravento ideale per smistare bustarelle a destra e sinistra: altro che Panama, è questo il grande canale che collega l’oceano della politica con quello dei finanziamenti.