la Repubblica, 6 aprile 2016
La Spagna vuole abolire la siesta. Ma il pisolino è importante
Resistere. Dopo il pranzo, un veloce caffè e si torna a lavoro. È il triste destino di quasi tutti i lavoratori e da oggi anche l’ultimo baluardo dei pisolatori rischia il crollo: gli spagnoli potrebbero dover rinunciare alla “siesta”, la dormita legalizzata che consente ai cittadini iberici di fare una lunga pausa: dalle 14 fino alle 16 o addirittura le 17. Lo ha deciso Rajoy, primo ministro spagnolo, che sembra voler dare un ultimo colpo di reni alla produttività del suo paese, ci aveva già provato nel 2013, ma il progetto era fallito e questa volta il premier conta di trovare consenso facendo leva non tanto sulla sete di profitto quanto sulla logica: riducendo la pausa si anticipa anche l’uscita dall’ufficio. Eppure non è detto che gli spagnoli ci caschino perché ormai in tutto il mondo la siesta si è scrollata di dosso l’immagine della pelandrona per diventare la migliore alleata della creatività e dei fatturati in crescita da Nike a Google.
In Spagna già alcune categorie erano state richiamate all’ordine in nome dell’efficienza: l’ex premier socialista Zapatero aveva accorciato il pranzo di chi lavora nell’amministrazione pubblica. E aveva ricevuto gli applausi della Confindustria spagnola secondo la quale l’8% del Pil andava in fumo per colpa della siesta. Ora Rajoy vuole estendere la rivoluzione a tutti, anche se qualcuno ha ridisegnato già i propri ritmi senza aspettare la legge. E il premier vuole stravolgere anche il fuso orario, o meglio normalizzarlo al “tempo medio di Greenwich” perché Madrid è tarata sull’orario di Berlino, una decisione ormai fuori tempo visto che fu presa da Franco nel 1942 in omaggio ad Hitler.
Proprio l’eccessivo calore delle ore centrali della giornata è, nell’immaginario comune, la giustificazione per meridionali, mediterranei e latini, per chiudere gli occhi, abbassare il sombrero, rilassare le membra e “ronfare”. La siesta è un’abitudine che fa rima con un certo senso di svogliatezza e diventa vezzo geniale solo quando si associa al potere politico o all’estro artistico. Da Bonaparte a Churchill che dormivano tra il primo e il secondo tempo delle battaglie. Anche in sella al cavallo. Fino a Clinton e Thatcher e ai sonnellini lampo dichiarati da Berlusconi. I micro-sonni d’altronde sono obbligatori per i navigatori solitari che solcano gli oceani e non possono concedersi di mollare il timone. La creazione artistica è un’altra valida giustificazione, Salvador Dalì si distendeva su una chaise longue e dipingeva le immagini sognate. E in qualche caso un neofita dell’arte potrebbe giurare che avesse mangiato un po’ pesante. O Albert Einstein che si appisolava impugnando una penna per svegliarsi quando gli cadeva di mano. I comuni mortali però se si appoggiano un attimo sul divano sono solo dei pigroni scansafatiche. Nella lista di chi al contrario vuole scagionarli c’è Jaques Chirac che nella prefazione dell’Elogio del sonno di Bruno Comby scrive: «Il solo accenno al riposo suscita sberleffi nell’umorismo popolare ma è proprio sciocco confondere il sonno con la pigrizia».
Eppure nell’era della produzione a tutti i costi, mentre si diffondono supermercati aperti ventiquattro ore su ventiquattro e la domenica diventa giorno lavorativo ( Il capitalismo all’assalto del sonno di Jonathan Crary), si riafferma il diritto alla siesta e il dolce dormire diurno si rivaluta. A farlo sono i grandi marchi, giganti come Google, Uber o Cisco che hanno deciso di restituire dignità al diritto al riposino, con le “nap room” che potrebbero presto essere realtà in ogni azienda. Un divano comodo, in alcuni casi un letto, in una stanza silenziosa, con anche la possibilità di concedersi una merenda, diventeranno la norma. Come è oggi lo spazio davanti alla macchinetta del caffè lì dove il tempo del lavoro è sospeso. Ma lasciar riposare i propri dipendenti non è una generosa concessione, la logica rimane il profitto: è la National Sleep Foundation a dire che con un riposino aumenta la produttività, cresce la creatività e la salute. E l’azienda ci guadagna, secondo il
Journal of Sleep la mancanza di sonno costa agli Usa 63 miliardi di dollari.
La paladina del sonno è Arianna Huffington, fondatrice di Huffington Post. Lei ha avuto un’epifania quando nel 2007 ha avuto un malore per l’eccessiva stanchezza. Da allora si oppone al “superlavoro”, regala pigiama ai suoi giornalisti e a breve partirà per un tour nei college per portare in giro il verbo della Sleep Revolution.
Si può dormire in ufficio, ma in Inghilterra hanno preferito concedere due giorni di ferie extra a scopo rigenerante: sono i “duvet day”, i giorni del piumone che stabiliscono che poltrire, ogni tanto è sacrosanto e non è necessario presentare certificati o dare spiegazioni.
Il piacere estremo della tregua nel bel mezzo della giornata, del buio artificiale creato da una persiana chiusa alle 15 del pomeriggio, è descritto dal Giovanni Percolla di Vitaliano Brancati. Quando si infila nel letto della sua casa siciliana: «Tutto il corpo gli s’intiepidì, e fin dai calcagni, che a Milano s’era tirato dietro come pezzi di ghiaccio, gli salì alla testa un’onda di sangue calda e mormorante». «Un solo minuto! Il tempo di entrare sotto le coperte, e uscirne! Lasciami levare questo capriccio!» aveva detto Giovanni all’impaziente Ninetta ma poi, si sa come va a finire. Dall’altro lato dell’Oceano, un altro scrittore ha descritto la siesta: Gabriel García Márquez. Lo ha fatto allargando lo sguardo su un villaggio addormentato e polveroso, quello dove arriva la madre del ladro nella Siesta del martedì: case mute e porte sprangate nel letargo del dopo pranzo. Un popolo che dorme indifferente fino a quando non decide di destarsi per curiosare, spiare e sparlare di quella donna venuta a vedere la tomba del figlio colpevole.
La Cina ha sancito nella Costituzione il diritto alla siesta (xiu-xi), le grandi aziende si stanno attrezzando e chissà che gli spagnoli non riescano a salvare la dormita dopo pranzo: proprio ora che la loro tradizione è stata rivalutata. «Separati dal mondo, stiamo ben più che bene: in quel momento non siamo nulla» scrive Philippe Delerm ne La Siesta assassinata. Delerm è anche l’autore de La prima sorsata di birra, uno che di piaceri si intende.