Corriere della Sera, 5 aprile 2016
Perché in Italia diventa poco meno di una bestemmia parlare di mobilitazione militare, mentre in Francia non si esita a servirsi delle armi?
Lei ha spiegato il costante atteggiamento da grande potenza che assume la Francia in politica estera, non rifuggendo dal mettere mano alle armi. Ma tutti ricordiamo la penosa débâcle dei francesi durante l’ultima guerra mondiale, tanto da rappresentare l’anello debole dell’alleanza anti-nazista. Viene naturale metterla sul piano dell’Italia nell’opposto schieramento. Ma allora, perché in presenza di analoghi insuccessi militari, in Italia diventa poco meno di una bestemmia parlare di mobilitazione militare, mentre in Francia non si esita a servirsi delle armi?
Lello Caropreso
raffaello.caropreso@gmail.com
Caro Caropreso,
Vittorie e sconfitte si alternano periodicamente nella storia di Francia. Dopo Waterloo, nel 1815, Parigi fu occupata dagli eserciti delle potenze vincitrici (Inghilterra, Russia, Prussia, Olanda); ma nei decenni successivi i suoi soldati tornarono sui campi di battaglia spagnoli e italiani, al Trocadero e a Solferino. Nel 1870 la Francia fu sconfitta dai prussiani a Sedan, ma poco meno di 50 anni dopo uscì vincitrice da un lungo conflitto contro Austria e Germania. Fu una dura prova. Dal primo all’ultimo giorno la guerra venne combattuta sul territorio nazionale e i morti francesi, alla fine del conflitto, furono un milione e 398.800: 800.000 più dell’Italia e quasi mezzo milione più della Gran Bretagna.
Quel bagno di sangue distrusse una generazione, colpì duramente i ceti borghesi, spina dorsale della nazione, suscitò un tormentato dibattito sul futuro del Paese e sulle sue istituzioni. Repubblicani delusi, socialisti frustrati, borghesi preoccupati dalla nascita di un partito comunista che aveva aderito alla III Internazionale, monarchici dell’Action Française, cattolici militanti: tutti erano uniti da un comune disprezzo per il sistema parlamentare. Alcuni grandi scandali, fra cui il «caso Stavisky» (un finanziere di origine ucraina) diffusero la convinzione che i mali della Francia fossero dovuti all’esistenza di una classe politica corrotta. Vi fu una grande manifestazione popolare, il 6 febbraio 1934, che prese d’assalto il Parlamento e lasciò sul terreno parecchi morti e feriti. Vi furono scontri pressoché quotidiani nel Quartiere latino fra i militanti del partito socialista, del partito comunista, dell’Action Française, delle Croix de feu (Croci di fuoco) del colonnello La Rocque. Stava prendendo forma in alcuni ambienti la convinzione che alla Francia occorresse una svolta autoritaria e che il regime nato in Italia qualche anno prima fosse un modello da imitare. Un governo del Fronte popolare presieduto da Léon Blum con il sostegno dei comunisti sembrò unificare le sinistre, ma accrebbe i timori della borghesia. Negli anni Trenta, la Francia visse in un clima di guerra civile incombente e fu governata da coalizioni deboli, incapaci di ispirare fiducia e consenso.
Furono queste, caro Caropreso, le ragioni della sconfitta. Quando lo schieramento francese cedette di fronte alla travolgente avanzata dei carri armati di Guderian, una parte della società francese accolse la sconfitta come l’invitabile conseguenza della malattia che stava da tempo distruggendo le fibre della nazione. Molti si spinsero persino a salutarla come una grande occasione per riformare lo Stato sulla base di nuovi principi e criteri. Il risultato di questo stato d’animo fu l’esperimento autoritario della Francia di Vichy. Ma vi era un’altra Francia che riconobbe se stessa nel messaggio del generale De Gaulle e dimostrò, ancora prima della fine della guerra, che sapeva combattere. La storia d’Italia è alquanto diversa. Ma di questo potremo forse parlare in un’altra occasione.