Corriere della Sera, 5 aprile 2016
I dati sono troppo volatili per affermare che le famiglie stanno risparmiando
Di questi tempi nel maneggiare i dati, anche quelli forniti dall’Istat (e non dalla Cgia di Mestre), bisogna adoperare molta attenzione. A livello di divulgazione giornalistica ma anche e soprattutto quando li si commenta in chiave politica. Prendiamo il caso di ieri: c’è senz’altro da esultare perché nel 2015 il potere d’acquisto è tornato a salire su base annuale (+0,8%) per la prima volta dal lontano 2007, il guaio però è che se restringiamo l’esame di questo indicatore al periodo ottobre-dicembre 2015 dobbiamo mettere da parte ogni gaudio perché riscontriamo una frenata misurata (trimestre su trimestre) nello 0,7%. Morale: in questa convulsa fase di dopo-crisi e con un’economia che non conosce più il classico avvicendamento dei cicli avremo per un lungo periodo dati volatili, che potranno segnalare drastiche inversioni di tendenza da un trimestre all’altro. Facciamocene una ragione ed evitiamo ogni volta di forzare il risultato nell’una e nell’altra direzione. Una conferma viene dall’esame dell’indicatore «propensione delle famiglie al risparmio»: nell’intero 2015 questa tendenza è rimasta sostenuta ma sempre nell’ultimo trimestre che la tendenza è cambiata con una retromarcia che viene stimata attorno allo 0,8%. Un dato più stabile pare essere quello dei consumi, che crescono moderatamente (+0,4%) sia nel terzo che nel quarto trimestre 2015.
Però al di là dei caveat metodologici l’infornata di dati Istat di ieri qualche riflessione in più la merita proprio sul terreno, delicatissimo, della propensione al risparmio. Per la maggior parte dello scorso anno abbiamo visto che di fronte all’aumento del reddito a disposizione delle famiglie il comportamento-principe è stato quello di «metter da parte». L’atteggiamento psicologico che ha generato questa tendenza lo si può facilmente catalogare alla voce «incertezza»: non capisco bene cosa stia succedendo nell’economia reale, non modifico in maniera significativa il menù di consumi che mi ero costruito negli anni della Grande Gelata, se ho soldi in più li tiro via. Come delle munizioni accantonate per combattere un guerra che arriverà. È chiaro che un atteggiamento iper-prudente di questo tipo non giova all’economia reale che avrebbe bisogno di sostenere i consumi e di veder investire di più, ma i comportamenti delle famiglie non sono facilmente influenzabili da messaggi top down e comunque la tradizione verso il risparmio in Italia è più che consolidata al punto da costituire una forma di saggezza popolare. Ci sarebbe voluta caso mai la capacità di tradurre questa risorsa «dal basso» in capitali pazienti da trasferire al sistema delle imprese ma purtroppo sappiamo che non ne siamo capaci.
Non è tutto. L’inversione che c’è stata nell’ultimo trimestre ci autorizza a dire che la tendenza al risparmio è stata però frustrata da almeno due fattori. Il primo è conseguenza della obiettiva difficoltà degli intermediari bancari e non nell’offrire impieghi remunerativi. Allo sportello capita di sentirsi dire che c’è la probabilità abbastanza elevata non di guadagnare poco ma addirittura di perder soldi. Il secondo fattore di frustrazione è figlio delle recenti turbolenze delle banche di territorio. Il caso della Banca Etruria, anche per i risvolti politici, ha giocato come elemento di deterrenza unito alle vicende delle altre tre banche del Centro Italia e soprattutto al terremoto che ha interessato le due banche del Nordest, la Popolare di Vicenza e Veneto Banca. In sintesi la volatilità dei dati non può che riflettere l’incertezza e il disorientamento delle famiglie che come nel gioco dei quattro cantoni non riescono a trovare un angolo dove sentirsi al sicuro.