Il Sole 24 Ore, 2 aprile 2016
Il circolo vizioso tra il prezzo del petrolio e i listini azionari. Una moda per algoritmi
Sembra diventata un’ossessione. Una mania. Non passa giorno che gli operatori di Borsa (umani o algoritmici che siano) non si sveglino senza guardare l’andamento del petrolio. Senza seguirne le orme.
Pochissime volte nella storia, almeno dagli anni ’80 quando iniziano i dati di Bloomberg, il legame tra prezzo del barile e listini azionari era stato così elevato: attualmente sia Wall Street sia i listini europei hanno con il greggio una correlazione pari a circa 0,80. Questo significa che si muovono quasi perfettamente sincronizzati: sale uno sale l’altro, scende uno scende l’altro. Siamo al livello record. Nelle serie storiche si trovano solo due brevissimi episodi analoghi nel 2009 e negli anni ’90. Ma mai il legame tra listini e petrolio era stato intorno a 0,80 per così tanto tempo come questa volta.
Questo fenomeno, così raro, fa nascere un dubbio: non è un po’ strano che i listini europei (cioè di Paesi che il petrolio lo importano e che dunque dovrebbero gioire se costa poco) si deprimano in questo modo se il prezzo del barile diminuisce? In fondo il settore petrolifero costituisce solo il 4,2% dell’indice EuroStoxx delle Borse europee: possibile che un comparto così poco rilevante determini in maniera così consistente le sorti dell’intero listino? In parole povere: possibile che gli investitori esagerino nel legare i destini delle Borse europee a quello del greggio?
Per rispondere bisogna prima analizzare tutti i motivi per cui una correlazione tra listini e greggio sarebbe giustificata. Gli investitori, vedendo il prezzo dell’oro nero scendere, temono che possano finire in crisi i Paesi esportatori o le aziende produttrici: è vero che per noi il petrolio a basso costo è positivo (la bolletta energetica scende), ma è anche vero che se questo dovesse comportare la crisi di Paesi come la Russia o dell’intero settore petrolifero, allora i guai arriverebbero anche da noi. Ecco perché quando il petrolio scende troppo, la notizia per noi non è più così positiva. Il punto, però, è un altro: sebbene qualche apprensione sia condivisibile, l’ossessivo legame tra Borse e petrolio appare comunque esagerato.
Per almeno un motivo: perché i Paesi esportatori che hanno l’economia maggiormente legata alle sorti del greggio non sono affatto grandi e hanno pochi legami con il resto del mondo. Dunque non sono di rilevanza sistemica. Sono i dati forniti durante un evento recente di Edmond De Rothschil a dimostrarlo: i Paesi che hanno l’economia davvero legata al petrolio sono il Kuwait (dove la rendita delle risorse naturali è pari a quasi il 60% del Pil), la Libia (46% circa), l’Arabia Saudita (45%), l’Iraq (43%), l’Oman (39%), l’Angola (35%) o il Qatar (35%). Ebbene: nessuno di questi Stati, se dovesse avere seri problemi a causa del mini-greggio, avrebbe un impatto sistemico globale. Neppure l’Arabia Saudita, che comunque ha risorse per sopravvivere anche con il petrolio basso. La Russia, Paese la cui crisi davvero avrebbe un impatto forte in Europa, dalle risorse naturali ricava invece una rendita pari ad appena il 17% del Pil. È vero che il 60% del suo budget federale è determinato da entrate petrolifere, ma questi non appaiono comunque
numeri da impensierire veramente il mondo.
Preoccuparsi è dunque lecito, ma strapparsi i capelli in Borsa ogni volta che il petrolio scende non sembra proprio il caso. Soprattutto in Europa, dove il barile a buon prezzo crea molti vantaggi. Allora perché le Borse lo fanno? Il motivo è da cercare altrove: non nell’impatto economico, ma nei meccanismi interni ai mercati stessi. Tutto nasce dal fatto che negli ultimi tempi alcuni fondi sovrani di Paesi petroliferi hanno dovuto vendere azioni in Borsa quando il prezzo del barile scendeva sotto certe soglie. Questo perché un petrolio troppo a buon mercato erode le entrate statali degli esportatori: così molti Governi hanno usato i propri “salvadanai” per racimolare denaro nelle Borse occidentali. E dato che si tratta di soggetti enormi, quando vendono azioni sui mercati l’effetto si sente.
E qui si arriva al punto vero che spiega la correlazione. Siccome gli operatori di Borsa sanno che in questo periodo i fondi sovrani potrebbero vendere grossi pacchetti di azioni quando il petrolio scende, hanno impostato tutti i loro algoritmi e le loro operazioni borsistiche su questo binomio: se il petrolio scende, bisogna vendere azioni per cavalcare l’onda ribassista. Se il petrolio risale, invece, bisogna muoversi in direzione opposta. Ormai non è neppure più importante sapere cosa facciano davvero i fondi sovrani: il binomio petrolio-Borse è così automatizzato, così di moda, che tutti ci si fiondano dentro. Il movimento in Borsa sui auto-alimenta. E la correlazione raggiunge il record. Fino al giorno in cui verrà scoperta un’altra moda. E dei fondi sovrani non s’interesserà più nessuno.