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 2016  aprile 03 Domenica calendario

Lavoratori scoraggiati, disoccupati e occupati. Trastulliamoci pure con i decimali sul mercato del lavoro, ma una cosa è certa: l’Italia è ancora in recessione

È di venerdì la notizia che, a febbraio, il tasso di disoccupazione è tornato a salire. Devo confessare che, fra le migliaia di dati che mi capita di analizzare, le variazioni mensili del numero di disoccupati sono le uniche che mi lasciano del tutto indifferente.
E la ragione è molto semplice: dacché gli studiosi di mercato del lavoro, negli anni 60 del secolo scorso, hanno inventato il concetto di “lavoratore scoraggiato”, un aumento o una diminuzione del numero di disoccupati vengono sistematicamente letti in due modi opposti. Chi desidera vedere il bicchiere mezzo vuoto dice che i disoccupati sono aumentati perché sono diminuiti i posti di lavoro.
 Chi desidera vedere il bicchiere mezzo pieno dice che i disoccupati sono aumentati perché sono diminuiti i “lavoratori scoraggiati”, ossia coloro che non cercano lavoro perché hanno perso la speranza di trovarlo: per gli ottimisti ad oltranza l’aumento del numero di disoccupati è un segno di speranza, la prova che “finalmente” (l’avverbio cult degli ottimisti) l’economia è ripartita. 
Ecco perché, di per sé, un aumento (o una diminuzione) del numero di disoccupati fra un mese e l’altro può dirci ben poco. Tutt’altro discorso vale per il numero di occupati. Qui, fatte tutte le debite premesse sulla qualità delle fonti e l’attendibilità dei procedimenti di destagionalizzazione dei dati, è molto più difficile tirare per la giacchetta le statistiche ufficiali. Una diminuzione degli occupati, come avrebbe detto Gertrude Stein, è una diminuzione è una diminuzione è una diminuzione. E a febbraio la diminuzione c’è stata, di ben 97 mila unità. La possibilità di vedere il bicchiere mezzo pieno, naturalmente, esiste sempre. Ma il compito è più arduo. Se si vuole conservare il buon umore bisogna spostare l’attenzione su altro. Bisogna cambiare argomento (suggerimento per gli ottimisti: date un’occhiata agli ultimi dati sui bilanci delle famiglie, che sono molto confortanti). Io invece voglio stare in argomento, e parlare di mercato del lavoro. Che cosa segnala il calo di occupazione dell’ultima rilevazione Istat?
A me pare che segnali l’avverarsi di quel che i pessimisti hanno ripetutamente ipotizzato: l’aumento dei posti di lavoro dipendente registrato nel 2015 è soprattutto il risultato artificioso della decontribuzione, quella che ho spesso denominato una “bolla” occupazionale. Nonostante questi fossero i timori, avevamo sperato, visti i buoni dati di gennaio (ossia del primo mese senza decontribuzione totale), che il trend positivo dell’occupazione osservato nel 2015 potesse continuare anche senza il costosissimo (10 miliardi l’anno) metadone degli incentivi. Dobbiamo purtroppo constatare che l’aumento di gennaio 2016 è stato, con ogni probabilità, il risultato di assunzioni effettuate negli ultimissimi giorni del 2015, e come tali comparse sui radar della rilevazione Istat delle forze di lavoro soltanto nel mese di gennaio. Insomma, il dato di gennaio era ancora, in parte, figlio della decontribuzione, e solo quello di febbraio ne è pienamente esente.
Febbraio, comunque, è un mese interessante. Siamo a due anni esatti dall’insediamento del governo Renzi, un’ottima occasione per tentare un bilancio. Il bilancio, in estrema sintesi, mi pare questo. 
Primo. Nel corso del 2015 la formazione di posti di lavoro è stata un po’ maggiore di quella che ci si poteva attendere in base alla dinamica (molto fiacca) del Pil. È presumibile che ciò sia dovuto soprattutto alla decontribuzione, per cui la vera domanda non è se la decontribuzione abbia funzionato oppure no, ma se sia stata la scelta più razionale in termini di costi e benefici. Rispetto agli ultimi due mesi del 2014, l’occupazione di febbraio 2016 fa registrare circa 115 mila posti di lavoro in più. Quanto ai costi della decontribuzione, il loro ordine di grandezza è di 30 miliardi di euro spalmati su 3 anni. 
Secondo. Anche se l’occupazione è aumentata poco, colpisce il modo in cui è cambiata la sua composizione. Con i dati fin qui disponibili, sembra che continui la tendenza, in atto da qualche anno, a privilegiare gli stranieri sugli italiani, le donne sugli uomini, i lavoratori più anziani (over 55) su quelli più giovani. Non è chiaro se questo sia prevalentemente un effetto della domanda di lavoro, che tende a selezionare gli strati più flessibili e/o affidabili della forza-lavoro, o sia invece un effetto dell’offerta, dovuto a un maggiore attivismo sul mercato del lavoro da parte di strati tradizionalmente considerati marginali.
Di fronte a questo magro bilancio, forse, è venuto il tempo di farsi qualche domanda. La prima è se le ingenti risorse (circa 20 miliardi l’anno) poste sul bonus da 80 euro e sulla decontribuzione non sarebbero state meglio allocate puntando su una drastica riduzione dell’Irap e dell’Ires, sul modello del Regno Unito e dell’Irlanda, forse non a caso fra le poche economie europee con buone prospettive di crescita. È un vecchio dilemma, detassare le imprese o i lavoratori, che si pose già ai tempi del governo Prodi, quando al timone dell’economia c’era il compianto ministro Tommaso Padoa Schioppa (allora venne risolto in modo salomonico, con uno split fifty-fifty del “tesoretto”, di cui non si accorsero né le imprese né i lavoratori). I governi tendono a risolvere il dilemma con un occhio al consenso, spesso contro l’opinione di membri del governo stesso, più preoccupati della crescita del Pil che di quella dei voti (ai tempi di Prodi era lo stesso Padoa Schioppa a ritenere che le risorse andassero dirottate verso le imprese; ai tempi di Renzi nel medesimo senso si espresse, inascoltato, Enrico Morando). 
C’è però anche una seconda domanda che, a mio parere, dobbiamo farci con molta serietà, e un briciolo di coraggio intellettuale. Come sarebbero andate le cose senza la decontribuzione? E come potrebbero andare, fra uno o due anni, quando venisse meno il triplo stimolo (cambio, petrolio, QE) che ha artificialmente sostenuto le economie europee?
La maggior parte degli analisti e dei centri studi ritengono che decontribuzione e triplo stimolo abbiano prodotto effetti positivi non trascurabili su Pil e occupazione. Ma poiché sia il Pil sia l’occupazione si sono mossi di assai poco, è inevitabile concludere che, al netto degli stimoli, l’Italia è ancora in recessione. Questo, temo, è il nostro vero problema. Possiamo trastullarci quanto vogliamo sui decimali, ma il punto è che, a quanto pare, l’economia italiana è ancora lontana dall’aver imboccato la strada che porta a una crescita dell’occupazione trainata dal Pil, e non dalle misure più o meno contingenti con cui si tenta di rianimarla.