Il Messaggero, 3 aprile 2016
Frankenstein, il mostro più umano che ci sia
Due film di grande successo negli Usa nelle sale italiane, riduzioni televisive, nuove biografie e saggi sulla donna che inventò il personaggio. Frankenstein, protagonista del primo romanzo nero fantascientifico pubblicato a Londra nel 1818, guadagna ancora una volta la ribalta e cattura l’interesse del pubblico. Il libro proposto dall’autrice con il titolo Frankenstein o il moderno Prometeo è ristampato senza interruzione dall’uscita, la vicenda viene ora riletta da due registi statunitensi in chiave diversa. Nella prima pellicola, “Victor. La storia segreta del dott. Frankenstein” di Paul McGuigan, la storia, interpretata da James McAvoy e Daniel Radcliffe, è ricostruita con cura filologica mentre nella seconda, “Frankenstein” di Bernard Rose, a far da sfondo c’è la Los Angeles contemporanea dove scienziati un po’ folli trascorrono giornate in laboratorio impegnati in manipolazioni genetiche. Gli abbonati a Netflix possono poi assistere alle puntate della serie tv “Penny Dreadful”, efficace assemblaggio dell’orrido vittoriano.
L’INTERPRETAZIONEQuali sono i motivi all’origine del perdurante interesse per la creatura mostruosa creata da un medico? Ecco la spiegazione offerta dal New York Times: «Affascinato dall’orrore del mostro, il pubblico accetta senza discutere i vizi di chi lo distrugge, così come ne accetta la presentazione letteraria, la tipologia frusta e ripetitiva che, a contatto con l’ignoto, riacquista forza e verginità. Il mostro serve a spostare gli antagonismi e gli orrori che si manifestano dentro la società all’esterno di essa. Infatti in Frankenstein la lotta sarà tra una “razza diabolica” e la “specie umana”. Chi combatte il mostro diventa il rappresentante della specie. Il mostro, l’assolutamente inumano, serve a ricostruire una universalità, una coesione sociale che, di per sé, non sarebbe più convincente».
Se è vero che i miti conservano la loro importanza soltanto se si continua a raccontarli, quello dell’orribile creatura assemblata da Frankenstein pare dunque godere di ottima salute. Il racconto messo a punto all’inizio dell’Ottocento da Mary Shelley sulle rive del lago di Ginevra ha infatti finito per diventare la chiave che consente di comprendere gli atteggiamenti di massa verso la scienza, e in particolare verso la biologia. Lo conferma un’indagine proposta da Charlotte Gordon, biografa della scrittrice che firma “Romantic Outlaws”, un saggio uscito a Londra per Hutchison, che documenta come nel corso del Novecento si possano contare oltre cento opere di narrativa, quaranta adattamenti cinematografici, ottanta produzioni teatrali e migliaia di fumetti con un evidente debito nei confronti della moglie del poeta, Percy Bysshe Shelley. Il ruolo della scienza è l’aspetto che più colpisce nella persistenza del mito: nel testo originale alla creazione del mostro sono dedicate non più di trenta pagine, ma è proprio questa porzione del libro a fornire i semi di quasi tutte le immagine derivate da Frankenstein che appaiono in tante varianti successive.
Il bersaglio delle accuse di Mary Shelley, sottolinea Barbara Johnson in “A Life with Mary Shelley” (Stanford U.P.) era l’Inghilterra sottomessa ai ritmi dell’industria. Sotto questo profilo la scrittrice appare in linea con le idee dell’ala più radicale della cultura britannica del periodo che aveva trovato alimento nelle opere dei suoi genitori: sia William Godwin che Mary Wollstonecraft, infatti, combatterono contro i valori dominanti dell’epoca e l’incontro con Shelley, avvenuto nel 1812, rafforzò le certezze della ragazza che aveva appena terminato un saggio sugli utopisti. Il periodo felice ebbe comunque breve durata perché il matrimonio con il poeta appare segnato da una sequenza di gravidanze, nascite e morti (solo un bambino sopravvisse) e ebbe un epilogo ancora più tragico con l’annegamento di Shelley nelle acque del golfo di La Spezia l’8 luglio 1822 che la lasciò in pessime condizioni finanziarie.
LE TRAVERSIEPer il resto dell’esistenza – conclusasi nel 1851 – Mary combattè contro due insidiosissimi nemici: la miseria, che la costrinse a produrre ad alto ritmo romanzi di scarso rilievo artistico, e il suocero, che le contendeva i diritti sulle opere del marito. Prima di ottenere una vittoria su entrambi i terreni dovette attendere a lungo. Solo nel 1832, infatti, riuscì a disporre della somma necessaria per poter aprire al figlio Percy Florence le porte di prestigiosi istituti privati, mentre nel 1839 riuscì a vincere le resistenze di sir Timothy Shelley e raccogliere in volume i versi, i saggi e le lettere del marito. La vicenda inventata per rispondere alla sfida lanciatale da Byron durante la piovosa estate del 1816 le assicurò una fama duratura ma non la ricchezza in virtù delle avventure di un personaggio che continua ad affascinare il pubblico.