il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2016
La beffa sui diritti d’autore. Poveri artisti
Devono aver fatto qualcosa di male, qualcosa di veramente brutto, le migliaia di cantanti e di musicisti italiani le cui canzoni passano per radio e spesso ci tengono allegri nei posti più impensati. E non parliamo solo dei vari Jovanotti o Vasco Rossi; Libague o Claudio Baglioni o di qualunque altro big benedetto da concerti con decine di migliaia di persone. No. Parliamo anche, e soprattutto, di tutti coloro i quali vivono solo, spesso a malapena, dei pochi incassi arrivati dai diritti d’autore.
Fino a ieri, a castigarli sono stati dirigenti e consulenti del vecchio Imaie (Istituto per la tutela dei diritti degli artisti, interpreti ed esecutori), con una mega-truffa nella quale sono spariti almeno 130 milioni di euro di diritti riscossi e mai redistribuiti. Oggi è il governo, che anche in spregio a una direttiva europea, dopo la liberalizzazione ha imposto l’obbligo di sottoscrivere fideiussioni-capestro alle nuove società che si occupano della raccolta dei diritti. Con l’effetto abbastanza scontato che gli artisti vedono meno soldi per via di un adempimento meramente burocratico. E rischiano di subire ogni anno un danno di alcune decine di milioni di euro.
La via crucis dei musicisti, ma anche degli attori per la parte di diritti “connessi”, ovvero che riguardano la riutilizzazione delle immagini (per i diritti d’autore c’è la Siae), inizia nel 2009 quando si scopre l’insolvenza del vecchio Imaie e un ricco buco da 130 milioni. Il prefetto di Roma scioglie in quattro e quattr’otto l’ente per manifesta incapacità di operare, mentre gli artisti, spesso litigando tra loro, chiedono e ottengono la liberalizzazione del settore in modo da operare autonomamente nella raccolta dei diritti. In parallelo, però, succedono altre due cose: 70 mila artisti, noti e meno noti, iniziano una faticosa e quasi disperata caccia ai loro denari scomparsi e la Procura di Roma, nel 2012, parte con un’inchiesta penale.
La maxi inchiesta della Procura di Roma
Quello che i magistrati di Piazzale Clodio scoprono abbastanza rapidamente, con l’aiuto della Guardia di Finanza (16 persone sono già finite alla sbarra e altre due sono state condannate per riciclaggio) è che il vecchio Imaie aveva iscritto nei propri elenchi di beneficiari delle ripartizioni tutta una serie di persone che non avevano il minimo diritto, nel senso che facevano i mestieri più diversi. E a questi musicisti-fantasma, però, venivano stornate somme ingenti. Il tutto mentre cantanti e attori, quelli veri, con varie scuse, non vedevano un quattrino. Alcuni milioni sono dunque finiti agli amici degli amici, altri sono stati direttamente affidati a una serie di consulenti finanziari che li hanno investiti e fatti sparire attraverso operazioni fittizie e mettendo su il consueto, italianissimo, carosello di fatture false.
Uno scandalo di queste proporzioni non poteva certo essere ignorato, neppure da un governo di emergenza e austerità come quello guidato da Mario Monti, un professore che difficilmente ci si immagina al karaoke. Così, nella primavera del 2012, l’attività di amministrazione e intermediazione dei diritti “connessi” degli artisti viene liberalizzata completamente (articolo 39 della legge 27/2012). Poi arriva un decreto attuativo e le neonate società di “collecting” degli artisti, nonché quelle dei produttori, si iscrivono obbligatoriamente a un registro speciale presso la Presidenza del Consiglio. Adesso sono nate altre tre società di gestione dei diritti degli artisti, oltre al nuovo Imaie, mentre i principali produttori discografici sono riuniti nel consorzio Scf.
Ognuno comincia a raccogliere i diritti delle riproduzioni su radio e tv e il meccanismo delle ripartizioni agli autori riprende a funzionare. Tutto bene, ma c’è un però, la fregatura che non ti aspetti. Perché questa volta la fregatura arriva dallo Stato.
Nel decreto attuativo, oltre alle condizioni necessari per registrarsi, si impone un’apposita fideiussione bancaria per un valore equivalente al 30% del monte-diritti amministrati nell’anno precedente. Come dire: cari artisti, visto che in passato vi siete fregati, o fatti fregare, i soldi, almeno il 30% lo blocchiamo in banca e chi s’è visto s’è visto.
Ma non è finita, con i governi di Enrico Letta e Matteo Renzi sulla vicenda entra in campo il mandarinato più sommo. Il Dipartimento per l’Editoria e l’Informazione di Palazzo Chigi, quello famoso per regalare soldi ai giornali con le motivazioni più fantasiose, decide di fare la faccia feroce con i cantanti e di interpretare in modo estensivo la norma punitiva. Alle società di “collecting” dei produttori viene addirittura richiesto di stipulare la famosa fideiussione sia per la quota parte dei diritti degli artisti, sia per la porzione di competenza dei produttori. Con un evidente effetto-moltiplicatore. Il primo calcolo fatto da un consorzio di riconosciuta efficienza come Scf è che se nel 2014 fossero state applicate le disposizioni sulle garanzie bancarie, agli artisti sarebbero stati distribuiti oltre 10 milioni in meno. E ovviamente stiamo parlando solo di quelli i cui produttori sono associati a Scf.
Dal punto di vista giuridico, le società di “collecting” hanno subito fatto notare al Dipartimento che il valore della fideiussione dovrebbe essere calcolato, almeno, sulla sola quota di diritti artistici amministrati ex lege. E non anche su quella degli altri. E che i beneficiari della fideiussione dovrebbero essere gli artisti interpreti ed esecutori, come previsto dalle norme applicabili. Non solo, ma la contestata garanzia dovrebbe essere costituita come garanzia di secondo livello e la richiesta dovrebbe essere subordinata alla richiesta di pagamento, da parte di artisti interpreti ed esecutori, al debitore originario (il consorzio) e al mancato soddisfacimento del credito da parte del debitore e del suo fideiussore.
Come da tradizione premio agli inefficienti
C’è poi un effetto decisamente paradossale di tutta questa vicenda della fideiussione: il meccanismo del collegamento alle somme effettivamente distribuite nell’anno precedente premia le società di raccolta che ripartiscono i diritti con lentezza e penalizzano maggiormente quelle che sono state più efficienti con gli artisti.
Le società di “collecting”, come si diceva, in questi mesi non hanno certo incassato il colpo senza provare a reagire. C’è stata una lunga discussione con il Dipartimento dell’Editoria, che ha chiesto un parere dell’Avvocatura dello Stato e ha confermato la propria impostazione, chiedendo di versare le fideiussioni entro due mesi. Ma a Palazzo Chigi non sono compatti e sanno che la zeppa della doppia fideiussione rischia di andare in evidente contrasto con lo stesso obiettivo della legge, che era quello di ridurre i tempi di ripartizione e di migliorare l’efficienza del sistema. Insomma, ci sarebbe spazio anche per qualche ricorso. La partita adesso è questa: nel recepimento della direttiva Ue 2014/26 in materia di diritti d’autore e diritti connessi, il cui iter è in corso alla Camera dei deputati, si potrebbe rivedere il decreto attuativo “incriminato”.
La bizzarra storia della fideiussione obbligatoria ha fatto venire a più di un cantante un dubbio più che legittimo: e se fosse un favore alle banche, l’ennesimo favore alle banche? Se uno tiene conto del fatto che stiamo parlando di una torta, quella dei diritti “connessi”, che vale almeno 300 milioni di euro l’anno, in effetti il sospetto ci può anche stare. Ma un rapido controllo tra i consorzi, e anche tra le banche stesse, smentisce una pista del genere. I manager raccontano che in alcuni casi non è stato facile trovare l’istituto di credito disponibile o interessato all’apertura della fideiussione. I “banchieri” raccontano divertiti che non hanno capito bene il meccanismo voluto da Palazzo Chigi e, forse, neppure il mercato dei diritti in sé.
E allora come nasce questo piccolo mostro giuridico? Chi cura gli interessi degli artisti un’idea se l’è fatta ed è questa: è una straordinaria dimostrazione di ottusità burocratica che si innesta sugli allarmi per le gestioni passate del vecchio Imaie. Per altro, le società di “collection” hanno già accantonamenti autonomi pari a circa il 5-10% delle somme gestite. Forse questo ulteriore macigno del 30% non era tanto necessario.
Enzo Mazza, presidente di Scf, ha seguito e segue in prima persona tutta questa partita e si sforza di separare i problemi: “Che le collection debbano sottostare a requisiti di trasparenza, di affidabilità del management, di qualità del servizio e del dato raccolto mi sembra giusto ed è evidente a tutti. Le disfunzioni del passato si sono create proprio per l’assenza di queste caratteristiche. Ma inventarsi questa storia delle fideiussioni è inutile e nocivo perché va solo a colpire la ripartizione dei diritti”.
Nessuno tiene conto della crisi del settore
Ma la battaglia per un’efficiente ripartizione dei diritti “secondari” ha anche profili di equità all’interno di una categoria, quella dei musicisti e degli interpreti, che non è tutta fatta di miliardari. Raccontano manager del settore che non si tiene mai conto davvero di quanto sia calata la vendita dei cd, un fenomeno continuo e probabilmente irreversibile, che ha impoverito tantissimi cantanti, musicisti, arrangiatori di secondo piano sul fronte dei diritti d’autore. Per questo motivo ci sono molti artisti che riscuotono dai diritti secondari somme che magari non superano i 2 mila euro l’anno, ma che per loro sono maledettamente importanti.
E a proposito di diritti d’autore, c’è un ulteriore elemento di bizzarria in tutta questa vicenda: la fideiussione viene imposta ai diritti connessi ma non sfiora minimamente il grande orto sul quale vigila la Siae. Perché? I diritti d’autore muovono cifre ben maggiori di quelli da riproduzione. Perché lo Stato non impone altrettanta cautela sugli autori?