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 2016  aprile 04 Lunedì calendario

Calcio, sesso e parolacce. Così andrebbe insegnato il greco, «perché gli antichi non erano quei marmorei esempi di virtù che ci propinano a scuola». Intervista a Walter Lapini

Il redivivo poeta Alvaro Rissa, protagonista di una scena-cult di Ecce Bombo e ora autore di un’innovativa antologia greco-latina (Il culo non esiste solo per andare di corpo, il Melangolo, pp. 206, euro 15) ricca di testi inediti di Omero, Lisia, Catullo, Orazio ecc., ce lo saremmo aspettato, se non proprio dall’oltretomba, spuntare da una selva oscura presso l’ingresso dell’Ade o da una trattoria tipo Bagutta. E invece lo becchiamo in trasferta nell’atrio della Cattolica. Perché, in realtà, non è più l’attore Cristiano Gentili, ma il professor Walter Lapini, ordinario di Letteratura greca all’Università di Genova. Un ex-ingraiano ed ex-cofferatiano che però non possiamo lasciarci sfuggire.
Professore, perché si è firmato con uno pseudonimo?
«Per separare l’attività di studio da quella ludica. E anche per mettermi al riparo da una certa tediosa seriosità accademica».
Beh, comunque di indizi per farsi riconoscere ne ha messi parecchi: per esempio Lapinos come pseudonimo di Omero nato in realtà a San Casciano…
«Eccome se ne ho messi. La pretesa radice micenea del nome w-lap@ non è che la prima parte del mio indirizzo e-mail. E le sigle alfanumeriche degli inesistenti papiri da cui dico di aver ricavato i testi sono quelle del mio codice fiscale. E potrei continuare. In realtà, il mio voleva essere un semi-anonimato. Volevo farmi riconoscere da pochi. Poi il grande e inatteso successo del libro mi ha costretto a venire allo scoperto».
Il titolo trash però sembra appartenere più ad Alvaro Vitali che ad Alvaro Rissa…
«In origine il libro doveva intitolarsi semplicemente Antologia della letteratura greca e latina, ma l’editore obiettò che in questo modo avremmo depistato i lettori. Perciò fu estrapolato un verso dell’Ode a Noemi di Orazio e usato come titolo. L’effetto è scioccante, lo ammetto, ma il libro in sé vorrebbe essere un’operazione mimetica raffinata e di alto profilo, in cui la forma metabolizza e riscatta anche i contenuti più duri. Non ho scelto io il titolo, ma non lo disconosco. Anzi, il contrasto tra fuori e dentro mi piace, perché in fondo è su questo contrasto che tutto il libro è giocato».
Epperò di sicuro i suoi poeti amano parecchio il lato B. Partito del culo contro partito delle tette?
«Non ci avevo pensato, ma è una lettura possibile, anche simbolicamente. Il seno è fertilità, fiducia, stabilità matriarcale, ma la nostra è l’era del lato B. Senza quello non vinci, non ce la fai. E magari è così da sempre. Anche Napoleone preferiva i generali fortunati a quelli bravi».
Non pensa che se il suo libro non sarà adottato nelle scuole sarà anche colpa del contenuto politicamente scorretto e maschilista? Calcio, sesso, parolacce, niente autrici (che so, Saffo per esempio, o Ipazia).
«Gli antichi non erano quei marmorei esempi di virtù che ci propinano a scuola. Erano anche maschilisti, classisti, razzisti. Quanto all’adozione, il mio libro non nasce certo per essere adottato! Però so che alcuni brani sono stati letti e commentati in classe. È successo a Fidenza, a Milano e a Napoli».
Tanti altri hanno composto versi in latino, dall’antichità ai nostri giorni. Come si pone rispetto a questa lunga tradizione?
«Anch’io ho fatto parte di questa tradizione. Ho scritto in latino “serio” dai 20 ai 30 anni, poi sono passato a quello maccheronico; non però al maccheronico facile, essenzialmente basato sull’aggiunta di desinenze latine a parole italiane o dialettali, e con una metrica approssimativa. Non mi piace questo metodo, è come giocare a tennis senza rete. La mia maccheronìa è semmai fondata sulla catacresi, sull’assonanza, sulla risemantizzazione, sul riuso. Non è facile spiegare. Per esempio magnum è un aggettivo, ma io l’ho usato nel senso di pistola: magnum capit “impugna la magnum”. Oppure la parola lavabo: in latino è un verbo al futuro, ma io l’ho usato (all’ablativo) nel significato italiano di “catino, bacinella”».
Il greco maccheronico invece è tutta farina del suo sacco, no?
«Direi di sì. Nella maccheronìa latina ho introdotto innovazioni, ma la maccheronìa greca credo di averla creata io. I principi sono gli stessi che ho applicato al latino: le assonanze, le catacresi, gli errori simulati, il flirt con le lingue straniere. Il tutto in una sintassi e una metrica rigorosa. Almeno spero».
E il didattichese della prefazione (implementare lo spirito critico, metodologie del problem based learning, esigenze attentive, strategie di debriefing a bassa guidance)? È stato divertente scriverlo?
«È stato difficilissimo. Non ce l’avrei mai fatta se non avessi letto le tesine del Tfa (Tirocinio Formativo Attivo) di alcuni miei ex allievi, una raffinata tortura dei corsi di didattica che si risolve in una produzione letale di scartoffie in un ital-english grottesco, umiliante sia per chi lo scrive sia per chi lo legge».
Da cosa nasce questa mania dell’inglese?
«Nelle facoltà umanistiche (su quelle scientifiche nulla so e non mi permetto giudizi) l’invadenza dell’inglese non è che servile esterofilia, cioè la peggior forma di provincialismo. Nell’accademia italiana un libro in inglese è di fatto un titolo più forte di un libro in italiano. Quindi chi non sa l’inglese si fa tradurre da altri, magari spendendo fondi di ricerca che potrebbero essere utilizzati in altro modo. Come vede il danno non è solo estetico. E poi vogliamo parlare della follia di insegnare Dante in inglese? Conosco casi di lezioni di storia della filosofia antica in inglese a dottorandi, che però erano tutti italiani! Ci sarebbero spunti per commedie alla Totò e Peppino».
Il cattivo esempio viene dallìalto, per esempio dal premier che parla in inglese in occasioni ufficiali in Italia.
«Capita perché siamo un Paese di servi. È un autogol, ancora più grave del coprire le statue nude per compiacere gli iraniani in visita».
Lei è un uomo di sinistra, ma ammetterà che a distruggere la scuola italiana, resa grande da Giovanni Gentile, è stato un Berlinguer.
«Quando ero ragazzo i professori erano divinità e gli alunni monnezza. D’un colpo eccoci all’estremo opposto, alla scuola iperdemocratica in cui i professori sono diventati uno zero e gli alunni e le famiglie clienti che hanno sempre ragione. È la situazione che con il solito fiuto Nanni Moretti prefigura in Bianca, anno 1984: scuola Marilyn Monroe, professori cazziati, gite sociali, juke-box in classe. E 12 anni dopo arriva Luigi Berlinguer, il primo dei tanti cavalieri dell’Apocalisse di quel ministero; arriva l’autonomia, arrivano i presidi-dirigenti che come il Macco e il Pappo del mio Sofocle si litigano gli iscritti a colpi di settimane bianche, voti regalati eccetera. Ma la realtà supera sempre la fantasia. C’è a Firenze un liceo che perde studenti a vantaggio di un altro e che pochi giorni fa ha convocato un collegio dei docenti appositamente per discutere il problema. E fin qui... Ma il fatto è che il dirigente (il dirigente!) ha presentato l’emorragia di iscritti come l’effetto di un subdolo piano da parte del liceo rivale. Siamo al ratto delle Sabine, alla guerra di Troia, alla Secchia Rapita».
Come si fa a salvare il Liceo Classico?
«Mettendo in testa agli italiani che il Classico è più utile di prima e che quindi non va indebolito, ma rafforzato nella sua vocazione storica».
Quale?
«Insegnare ad affrontare le difficoltà e le situazioni nuove, a resistere in condizioni di durezza e di svantaggio; a conferire solidità e adattabilità. Il mondo del lavoro non intende forse questo quando parla di flessibilità?».
Dunque la formazione conta più della specializzazione?
«Di gran lunga. Un tempo imparavi a giocare a pallone e quello facevi. Ma oggi no. Oggi ti chiedono di giocare a pallone, poi a basket, poi a un’altra cosa. Solo se sei un atleta te la cavi sempre».
E sono le lingue antiche a fare di te un atleta?
«Non certo da sole, sarebbe stupido e presuntuoso dirlo. Ma sono secondo me un requisito non negoziabile per una scuola che intenda formare una classe dirigente».
Il suo Teodette di Faselide, restituitoci da un «Papiro di Ornitorinco», racconta di un Platone che si reincarna, cerca un posto da ricercatore di Letteratura greca e viene bocciato sul suo stesso pensiero a vantaggio di un raccomandato. Accadono così spesso queste cose all’università?
«Presto non accadranno più».
L’università si è moralizzata?
«Direi piuttosto che si è passati dai concorsi sospetti alla cooptazione, non più di fatto, ma legale, alla luce del sole. Chissà che non tornino anche i tempi di Antonio Mirabelli, che nel 1872, dovendosi assegnare la cattedra di Letteratura latina all’università di Napoli, partecipò al concorso sia come candidato sia come commissario».
E lo vinse?
«Questo lo lascio indovinare a lei».