Il Sole 24 Ore, 4 aprile 2016
L’Europa del fisco: le tasse sulle imprese a confronto, paese per paese
Cinquanta miliardi e 268 milioni. Tanto vale l’assegno versato nel 2015 dalle imprese italiane alle casse dello Stato. Una fetta pari all’11,5% del totale delle entrate tributarie, il livello più alto tra i big europei e quasi la stessa percentuale della piccola Irlanda (10,8%), polo di attrazione delle multinazionali, che però ha un gettito di 5 miliardi. Lo rivelano le elaborazioni effettuate da Kmpg sui bilanci statali, che hanno messo a confronto gli incassi derivanti dalle imposte societarie in nove Paesi.
Nel 2015 in Italia le aziende hanno sborsato 33 miliardi sotto forma di Ires, l’imposta sul reddito delle società che oggi si situa al 27,5% ma che dovrebbe ridursi al 24% dal 2017. Le società di capitali hanno inoltre pagato un ammontare stimato di 17,268 miliardi di Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive. Londra e Parigi vanno a braccetto, ma solo per l’incidenza delle imposte sulle imprese che rappresenta in entrambi i Paesi il 9% delle entrate totali. Le affinità, però, si fermano qui. Come valore assoluto primeggia la Francia dove le aziende hanno versato nel 2014 – ultimo dato disponibile – ben 58 miliardi. Oltralpe la corporate tax nominale si attesta al 33,33%, mentre quella totale, calcolata dalla Banca Mondiale, è pari al 62,7 %, poco sotto il livello italiano del 64,8 per cento. Esistono però aliquote diverse a seconda delle dimensioni delle aziende. La «Loi des Finances 2016» punta inoltre a far tirare un sospiro di sollievo alle società transalpine con una riduzione del prelievo di 9 miliardi.
La Gran Bretagna ha una corporate tax nominale al 20%, tredici punti al di sotto di quella francese, e una effettiva del 25,9 per cento. La percentuale di gettito delle imprese rispetto al totale è però la stessa. Non solo. Se l’aliquota di Parigi è ferma dal 2006, quella d’Oltremanica è oggi 10 punti più bassa rispetto al 2008 e scenderà al 17% nel 2020 (si veda a pagina 3). Nonostante i continui ritocchi all’ingiù dell’aliquota l’incidenza delle imposte societarie sul totale delle entrate è rimasta stabile tra il 9 e il 10 per cento, con buona pace delle casse dello Stato, ma anche delle imprese che hanno beneficiato di una tassazione più favorevole. Come si spiega questo fenomeno? «Oltre all’aliquota fiscale – precisa Richard Murphy, partner Kpmg responsabile dei servizi Tax and Legal – la base imponibile e il numero di imprese attive contribuiscono a determinare il gettito fiscale da imposte societarie. Questi due aspetti spiegano il maggior gettito dei Paesi più grandi. A favorire l’aumento della base imponibile è stato anche il recepimento dell’accordo Beps (Base erosion and profit shift) approvato dai paesi Ocse lo scorso ottobre, che punta a contrastare fenomeni di elusione fiscale da parte delle multinazionali e di cui il governo britannico è stato uno dei promotori». Secondo Murphy, «Londra non solo è riuscita a creare un habitat favorevole per le imprese, con una pubblica amministrazione e un sistema fiscale in grado di dialogare con loro, ma ha dimostrato un’ottima capacità di comunicazione per diventare più attrattiva. Una lezione che l’Italia, in vista della riduzione dell’Ires, sta già iniziando a imparare. L’introduzione del patent box è stato un provvedimento molto apprezzato per incoraggiare gli investimenti in Ricerca e Sviluppo e attirare i capitali esteri».
In Spagna il “sacrificio” fiscale delle imprese vale 16,8 miliardi, pari all’8,4% del totale delle entrate tributarie. Negli anni bui della crisi anche Madrid ha calato l’asso della riduzione della corporate tax per diventare più attrattiva. L’aliquota nominale era il 30% nel 2008, è stata portata al 28% nel 2015 e dallo scorso 1° gennaio è scattata un’ulteriore riduzione al 25 per cento. L’ultimo dato della Banca mondiale mostra invece un total tax rate del 50 per cento. In Germania l’imposta societaria nominale si attesta oggi al 29,65% ed è stabile dal 2008. Nel dettaglio si applica una tassa sul reddito delle società del 15%, un contributo di solidarietà dello 0,825% e una tassa sul commercio che varia dal 7 al 17,15% a seconda dei Länder. La grande sforbiciata risale al 2007, quando il fisco costava alle imprese tedesche il 38% del reddito. Berlino primeggia per il gettito fiscale complessivo, pari a 665 miliardi: le imprese – secondo l’ultima fotografia ufficiale scattata nel 2014 – contribuiscono a questo tesoretto con 44,3 miliardi, il 6,6% del totale.
Tra i Paesi di minori dimensioni si mette in luce proprio l’Irlanda, che da anni esibisce l’aliquota del 12,5% come il gioiello di famiglia più prezioso ed è diventata un polo di attrazione per le multinazionali. In Svezia secondo l’ultimo dato disponibile le imprese hanno contribuito alle casse dello Stato per 11,5 miliardi, pari al 6,7% delle entrate totali. Anche Stoccolma ha utilizzato la leva del fisco per incoraggiare gli investimenti portando la corporate tax nominale dal 26,3 al 22% nel 2013, mentre quella reale si attesta oggi al 49,1 per cento. L’incidenza è alta (11%) anche in Portogallo: il Paese ha ridotto l’aliquota dal 25 al 23% nel 2014 per arrivare al 21% nel 2015 per tentare la risalita della sua economia dopo il piano di salvataggio da 78 miliardi targato Ue e Fmi, concluso nel maggio 2014. Il provvedimento sta dunque portando i primi frutti attirando nuove imprese.
Atene è andata nella direzione opposta e dal 2012 al 2015 ha alzato l’aliquota di ben 9 punti per arrivare al 29 per cento. Qui il gettito delle società rappresenta il 7% delle entrate totali, ma solo l’1,3 del Prodotto interno lordo. Negli altri Paesi la percentuale si situa invece tra il 2,4 il 2,7%, con la sola eccezione del Portogallo, dove le imposte societarie valgono il 3,5% del Pil.
Chiara Bussi
Con l’annuncio che la Gran Bretagna porterà la sua corporate tax dal 20% al 17% entro il 2020, è ripartita la concorrenza fra gli Stati europei a colpi di aliquote fiscali per attrarre gli investimenti delle imprese. Tre i concorrenti più agguerriti in campo: oltre a Londra, l’Olanda e l’Irlanda. Anche l’Italia gioca la sua partita, con l’Ires che dal 2017 scenderà dal 27,5 al 24 per cento.
Si riaccende fra gli Stati europei la concorrenza a colpi di aliquote fiscali per attrarre gli investimenti delle imprese. L’ultima mossa ufficiale è stata quella della Gran Bretagna: il premier David Cameron ha annunciato che la corporate tax inglese scenderà dal 20 al 17% entro il 2020. Appena prima di Londra, nella partita era scesa anche l’Italia, che con la Legge di Stabilità 2016 ha varato un abbassamento della corporate tax portando l’Ires dal 27,5 al 24% per il 2017 (e l’Irap resta al 3,9%).
Concorrenti in campo
A guardare solo le aliquote nominali, nella Ue i Paesi che fanno meglio di Londra sono parecchi: c’è la Slovenia al 17%, la Romania al 16%, ci sono la Lettonia e la Lituania al 15% e c’è Cipro al 12,5%. Il vero concorrente da battere sembrerebbe l’Irlanda, che non solo ha un’aliquota al 12,5%, ma di questa aliquota ha fatto il principale ingrediente del proprio successo economico post-crisi. Eppure, sostengono gli esperti, osservando il quadro con un occhio più esperto si scopre che la vera partita europea è a tre: fra la Gran Bretagna, l’Olanda e (solo in parte) l’Irlanda. Con la Svizzera piuttosto ai margini e i Paesi Baltici e la Slovenia che potrebbero sì diventare competitor interessanti, ma solo fra qualche anno e parecchie infrastrutture in più.
La mossa inglese
«In sé, la mossa della Gran Bretagna è più propagandistica che di sostanza - sostiene l’avvocato Carlo Galli, partner e referente della practice Tax dello studio legale Clifford Chance - per fare un vero paragone sul peso delle tasse societarie bisognerebbe infatti valutare su cosa si calcola l’imponibile e a quali altre imposte le imprese sono soggette. Quello che però è importante, della mossa di Cameron, è che si colloca in un percorso di grande chiarezza fiscale e di riduzione delle imposte che la Gran Bretagna ha intrapreso da anni». Soltanto dieci anni fa, a Londra, la corporate tax era al 30% mentre oggi è già al 20%.
La sfida dell’Olanda
È il trend, insomma, quello che rileva. Ed è proprio per questo che la partita europea ha nell’Olanda l’altro grande giocatore di peso. Olanda che è passata dal 29,6% del 2006 al 25% di oggi, «e che già sta pensando a ulteriori ribassi per l’immediato futuro», ricorda l’avvocato Galli. «L’Olanda - spiega invece l’avvocato Luciano Acciari, partner responsabile del dipartimento Tax dello studio Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners - mantiene ancora il suo appeal non tanto grazie a un tax rate nominale basso (e comunque superiore di 5 punti a quello attuale di Londra, ndr), ma grazie a un sistema fiscale favorevole alla corretta tassazione delle attività finanziarie o delle holding in relazione ai flussi di reddito provenienti da altri Paesi».
Il peso dell’Irlanda
L’era della delocalizzazione a soli fini fiscali ormai è finita. Oggi un’impresa sceglie un Paese solo se può prendere parte alla sua economia. «Questo fa sì che le aliquote fiscali corporate siano un tema che interessa soprattutto le grandi aziende», rammenta Alessandro Terzulli, capo economista della Sace. Ed ecco perché l’Irlanda entra nella partita, ma solo in parte: Dublino offre sì la tassazione d’impresa più competitiva d’Europa, con una corporate tax al 12,5% e un total tax rate (cioè una stima della pressione fiscale totale sulle società), del 25,9%. Ma Dublino va bene solo per alcuni tipi di investimenti, non per tutti, e questo nonostante il suo costo del lavoro sia più basso di quello inglese (ora più che mai, visto che Cameron ha appena annunciato che il salario minimo passera da 6,7 a 9 sterline, sempre entro il 2020). «Londra - ricorda l’avvocato Paolo Sersale, che dello studio Clifford Chance è partner e referente della practice corporate - è ormai riconosciuta come la capitale europea anche dei servizi e dell’oil&gas, non solo della finanza».
L’Italia, con la sua Ires al 24% dal 2017 ma una corporate tax complessiva oggi al 31,4% e un total tax rate del 64,8%, resta più ai margini della competizione. «Certo - ricorda l’avvocato Acciari - va considerato che il nostro sistema prevede una serie di agevolazioni per le imprese, dall’Ace al patent box ai superammortamenti, che attenuano il tasso nominale e di cui gli investitori internazionali tengono conto».
Fuori dalla Ue
La Svizzera? «Al pari del Lussemburgo e della Francia - ricorda l’avvocato Galli - ha molte imposte locali, che finiscono con l’appesantire parecchio il carico sulle imprese. Eppoi è un Paese chiuso, una destinazione selettiva: ha costi del lavoro elevati e solo alcuni dei suoi cantoni offrono agevolazioni all’ingresso di nuovi business». Berna resta però un valido concorrente di Londra per quanto riguarda il comparto farmaceutico, «mentre per la moda - aggiunge l’avvocato Sersale - si stanno rivelando interessanti sia Hong Kong che Singapore».Outsider temibili, le due città asiatiche: l’una con aliquota fiscale per le imprese al 16,5% (e total tax rate al 22,8%), l’altra con aliquota al 17% (e total tax rate al 18,4%). «Nessuno però va ad Hong Kong solo per il valore della sua aliquota - ricorda Galli - trasferirsi lì è una scelta prima di tutto geografica». La gara delle aliquote, insomma, va giocata rigorosamente a livello regionale.
Micaela Cappellini