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 2016  aprile 04 Lunedì calendario

La storia di Carolina Picchio, la quattordicenne che si è buttata dalla finestra per colpa dei cyber-bulli, raccontata dal padre

Sarà un tribunale a dover rispondere a una domanda semplice: si può arrivare al suicidio perché vittime di cyberbullismo? La storia, quantomeno giudiziaria, di Carolina Picchio è tutta qui. Carolina si gettò dal balcone di casa a Novara nella notte tra il 4 e il 5 gennaio 2013. Aveva 14 anni. Il motivo scatenante sarebbe stato un video che riprendeva la giovane, ubriaca, a una festa. Un video fatto circolare tra gli amici, immagini che erano diventate fonte di scherno, derisione, prese in giro alle quali Carolina non ha retto. Lei lo ha lasciato scritto, prima di togliersi la vita. Della morte di Carolina potrebbero dover rispondere sei ragazzi. Per uno, maggiorenne, c’è una citazione diretta a giudizio per stalking. Ai cinque minorenni sono invece contestati reati vari: stalking, violenza sessuale di gruppo aggravata dall’utilizzo di sostanze stupefacenti, pornografia minorile, detenzione e diffusione di materiale pedopornografico, diffamazione, lesioni personali colpose e soprattutto il reato di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto. Per loro l’udienza preliminare è fissata il 13 aprile a Torino. A portare avanti pubblicamente la battaglia di Carolina è il papà, Paolo Picchio, 66 anni, ex dirigente della De Agostini. Un uomo contro il quale il destino ha deciso di accanirsi non poco. Prendete nota: a sette anni Picchio perse entrambi i genitori e due dei tre fratelli in un incidente stradale. Poi toccò al suo primo figlio, morto a tre anni per una encefalite fulminante. In seguito a quella tragedia se ne andò anche la moglie, per un tumore. Picchio si era ricostruito una vita con una donna brasiliana, madre già di due bambine. Era nata Carolina, poi la fine del rapporto con la donna e la tragedia della figlia: «L’unica ragione di vita che mi era rimasta».
Picchio, da dove cominciamo a raccontare questa storia?
«Da qui: io non voglio essere il Caino per questi ragazzi. Se hanno commesso dei reati è giusto che paghino, ma io sono già oltre. Vorrei poter fare qualcosa per i ragazzi che un domani diventeranno genitori. Se cominciamo a educarli oggi, forse limiteremo drammi come quello di mia figlia».
Carolina si è uccisa perché bullizzata?
«Lei ha lasciato un testamento, frasi lucide. Ha nominato quei sei ragazzi, ha salutato la mamma, me, le sorelle. Ha scritto: “Perché voi possiate capire, ragazzi, che le parole fanno più male delle botte”».
Lei che risposte si è dato?
«Carolina non aveva niente di criticabile per un’adolescente. Cerchi di capire cosa intendo, ma non era grassa, non era brutta, non era piccola. Era sportiva, aperta al mondo, era bella».
Era il 5 gennaio 2013.
«Un venerdì. Carolina mi chiede di andare ai giardinetti per salutare gli amici, perché il giorno dopo l’avrei accompagnata dalla mamma dove sarebbe rimasta per il week-end. Sono andato a riprenderla alle 23».
E?
«So cosa vuole sapere. Era normalissima. Siamo arrivati a casa e lei mi ha detto: “Papà, vado a dormire”. Le ultime sue parole. Io ho visto un po’ la tv, poi all’una sono andato a letto».
Poi?
«Alle tre di notte bussano alla porta. Sono i carabinieri. “Picchio, dov’è sua figlia?” mi chiedono. E io: “In camera, a dormire”. Siamo andati lì, ho aperto la porta. Carolina non c’era, ma la finestra era spalancata».
I ricordi di Paolo Picchio, quella notte, si congelano in quell’istante, e anche se non fosse è giusto non insistere. Facciamo un passo indietro: due mesi prima c’era stata una festa.
«Il 20 novembre 2012. Carolina mi chiede se può andare a mangiare una pizza da amici».
Che succede quella sera?
«Chissà, forse le hanno dato da bere qualcosa di strano, sta di fatto che su otto ragazzi presenti lei è l’unica ad essere stata male».
È un’accusa pesante.
«Uno dei ragazzi è indagato per violenza sessuale aggravata dall’utilizzo di droga. Lei a quella festa ha perso totalmente coscienza. Quando sono andato a riprenderla era in stato confusionale. I ragazzi mi hanno detto che aveva bevuto una bottiglia di vodka. L’ho schiaffeggiata per farla riprendere, l’ho portata a casa, l’ho messa a letto. Il giorno dopo non ricordava niente».
Niente?
«“Papà – mi ha detto – è entrato questo ragazzo, forse ha messo qualcosa nel bicchiere, poi il buio”. Lei non ha percepito nulla di quello che è successo».
È successo che quei ragazzi l’avevano filmata in bagno, mentre stava male.
«Han fatto quelle cose che... guardi, lasci stare».
Lei ha visto il video?
«Non ho voluto. Precisiamo, non c’è stata una violenza sessuale nel senso in cui molti potrebbero pensare, ma un esibizionismo nei suoi confronti, atti osceni, frasi ingiuriose... Ma nessuno sapeva nulla di questo filmato. Io l’ho scoperto dopo che Carolina è morta. Ho paura che mia figlia invece l’abbia scoperto il giorno prima, o due giorni prima di togliersi la vita».
Cosa avrebbe scoperto Carolina?
«Che quel video era circolato tra gli amici attraverso i social, poi forse l’hanno messo in rete».
Carolina si sarebbe tolta la vita perché non avrebbe retto a tutto questo. Si chiama cyberbullismo.
«È una pratica subdola. Il bullo di una volta ti dava un pugno in faccia o ti buttava per terra. Il cyber-bullo percepisce le debolezze della persona e lì va a colpire, in modo scientifico».
Sa cosa dicono molti? Sono ragazzi...
«Invece bisogna far capire i rischi. Internet è uno strumento straordinario di informazione, ma servono educazione e prevenzione per usarlo correttamente. I ragazzi devono sapere».
Cosa, esattamente?
«Che alcuni comportamenti sono reati. Mettere un “like” su una frase violenta o ingiuriosa nei confronti di un compagno è un possibile reato. Mandare una foto osé alla fidanzatina o al fidanzatino rischia di trasformarsi in un problema penale».
Uno dei ragazzi coinvolti chiese scusa, pochi giorni dopo il tragico epilogo.
«Lo fece attraverso i giornali, non certo a me».
Nessuno si è fatto vivo?
«Mai. Ormai sono passati tre anni, questi ragazzi sono diventati maggiorenni. Io capisco le lentezze della giustizia, ma bisognerebbe intervenire subito».
Chi li deve educare?
«I genitori, anzitutto».
Almeno qualcuno dei genitori l’avrà contattata.
«Nessuno».
Neanche frasi di circostanza?
«Sa, i genitori...» sbuffa Picchio.  «I genitori non conoscono il mondo virtuale dei figli, tendono a minimizzare. La responsabilità genitoriale si è persa. L’80% dei genitori ritiene che sia la scuola a dovere educare. Ma siamo matti? La scuola è fondamentale, ma l’educazione spetta alla famiglia».
Lei si è mai rimproverato qualcosa?
«Certamente. Forse Carolina qualche messaggio me l’ha anche lanciato, ma mai avrei immaginato questo epilogo. L’hanno mortificata nella sua intimità fino al punto da non farla più ragionare».
La scuola può fare qualcosa?
«Gli insegnanti dovrebbero essere più preparati sul tema e si potrebbe pensare a una sorta di moderna educazione civica dedicata al fenomeno del cyberbullismo. Ma magari presto succederà».
Dice?
«Lo spero. Questa tragedia mi ha fatto riprendere i contatti con l’ex insegnante di musica di Carolina alle medie. Si chiama Elena Ferrara, oggi è diventata senatrice del Pd e ha proposto un disegno di legge per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo. È già stato approvato all’unanimità in Senato ed è in procinto di essere discusso alla Camera».
Cosa prevede questa legge?
«Cominciamo a dire che non è contro la rete, non ha carattere repressivo. La legge prevede una definizione di cyber-bullismo, la possibilità di rimuovere contenuti offensivi dalla rete e dai social, anche da parte degli stessi ragazzi, la segnalazione al garante della Privacy, la nascita di un referente in ogni scuola e risorse per educare e prevenire il fenomeno. Al di là della legge ci sono altre iniziative. Mi lasci ringraziare Luca Bernardo che dirige la Casa Pediatrica dell’ospedale Fatebenefratelli e che sta facendo un lavoro egregio sul tema del cyberbullismo. Così come ringrazio la Polizia postale e la loro campagna educativa “Una vita da social”».
Picchio, cosa si aspetta sul fronte giudiziario?
«La magistratura ha fatto un lavoro stupendo, se ci sono reati devono essere perseguiti. Ma non voglio rivincite. Tanto mia figlia non me la restituiranno mai. Magari mi servisse a qualcosa...».
Incontrerà quei ragazzi.
«Certamente non mi piacerà guardarli negli occhi. Non le nascondo che sarà molto dura».
Picchio, a questo punto ho pudore a chiedere di lei, a scavare nei suoi altri drammi personali, che non c’entrano con questa storia.
«Le dico solo questo: quando vedo in tv un film drammatico penso: “Queste storie sono all’acqua di rose in confronto alla mia”. Ho avuto una vita tormentatissima. A sette anni ho perso i genitori e due fratelli, poi un figlio di tre anni, quindi la prima moglie. Avevo riposto tutto in Carolina, che era...».
Paolo Picchio si ferma.