Libero, 4 aprile 2016
Se il 17 aprile dovesse vincere il "Sì" perderemo miliardi di euro e quasi seimila posti di lavoro
Sul sito del governo svizzero c’è una pagina dedicata ai referendum dove per ogni quesito si può trovare una descrizione chiara del tema, una scheda con gli effetti che avranno il «sì» e il «no» e un riassunto delle opinioni dei favorevoli e dei contrari. In Italia, le cose non funzionano proprio così: quando si parla di referendum la chiarezza viene spesso sacrificata sull’altare delle necessità politiche. Il 17 aprile, ad esempio, si andrà a votare per il cosiddetto referendum «no-triv» in cui gli italiani saranno chiamati a decidere se le estrazioni di gas e petrolio entro le 12 miglia marine potranno continuare fino all’esaurimento dei giacimenti o se dovranno essere bloccate entro i prossimi anni.
In altre parole non si tratta di impedire nuove trivellazioni, che sono già impedite per legge entro il limite delle 12 miglia. Quello che chiedono i promotori del referendum è di bloccare l’attività di 39 piattaforme che estraggono gas e di 9 che estraggono petrolio non appena scadranno le concessioni che gli consentono di operare – nella maggior parte dei casi tra circa 15 anni. Se invece dovesse vincere il «no», o se il referendum non dovesse raggiungere il quorum, queste piattaforme potrebbero essere autorizzate a continuare le estrazioni fino all’esaurimento dei giacimenti. Le piattaforme che rischiano di chiudere in caso di vittoria dei sì oggi estraggono il 17,6% della produzione nazionale di gas (cioè il 2% del consumo nazionale) e il 9,1% di quella di petrolio (cioè lo 0,8% del consumo nazionale). Molti dei promotori sottolineano l’importanza soprattutto politica del referendum: si tratta di inviare un segnale forte al governo affinché incentivi lo sviluppo delle energie rinnovabili, diminuendo la nostra dipendenza da quelle fossili (nonostante già oggi quasi la metà dell’energia prodotta in Italia derivi da fonti rinnovabili). Un referendum «politico», però, non ha probabilmente lo stesso appeal di uno per salvare l’ambiente da un disastro imminente, così alcuni sostenitori del «sì» hanno nascosto dietro una cortina fumogena il vero significato del referendum, parlando ad esempio dei rischi naturali e per il turismo di fantomatiche «nuove trivellazioni». Gianluca Corrado, ad esempio, candidato del Movimento 5 Stelle al comune di Milano, ha scritto che bisogna votare «sì» per proteggere la Lombardia dalle trivellazioni. Corrado a quanto pare ha preferito non notare che il referendum non tocca la possibilità di effettuare nuove trivellazioni (che sono già vietata entro le 12 miglia, come abbiamo visto) ed è addirittura arrivato a dimenticare che la Lombardia non ha accesso al mare, e quindi non è in alcun modo toccata dal referendum.
Non è la prima volta che succede e in passato è già accaduto che i referendum venissero fraintesi oppure consapevolmente pubblicizzati in maniera fraintendibile. L’esempio più recente prima del «no-triv» è quello del referendum sull’acqua del 2011. All’epoca la campagna a favore del «sì» fu massiccia e coinvolse moltissimo gruppi, comitati, associazioni e mezzi d’informazione. Il referendum venne presentato da gran parte dei suoi promotori come una battaglia di civiltà che aveva lo scopo di impedire la privatizzazione delle risorse idriche del paese e bloccare i tentativi delle aziende private di ottenere un profitto «garantito dalla legge».
In realtà, la portata del referendum era molto più ridotta. In Italia, l’acqua è sempre stata una risorsa pubblica e, con ogni probabilità, lo rimarrà anche nel prossimo futuro. Quello che può essere privato, o misto pubblico-privato, è la gestione dell’acqua, cioè la costruzione di acquedotti, condotte, la loro manutenzione e tutto quello che ci sta intorno. Con il primo quesito del referendum, si chiedeva ai cittadini italiani di abolire l’obbligo per gli enti locali a indire gare pubbliche per affidare la gestione dei servizi idrici ad aziende private o pubbliche -private – come erano obbligati a fare da una legge approvata poco tempo prima. Il secondo quesito venne altrettanto frainteso. I promotori del referendum sostenevano che la legge assegnava un profitto garantito pari al 7% dell’investimento a tutti i privati che avessero acquistato quote di società idriche. In realtà la legge stabiliva che nel calcolo delle tariffe dell’acqua, cioè della bolletta pagata dai cittadini, andasse conteggiato anche un 7% aggiuntivo, a titolo di remunerazione dell’investimento che chiunque, pubblico o privato, avesse fatto nella società, ad esempio acquistandone le azioni. Non un profitto garantito, quindi, perché indipendentemente da questo 7% aggiuntivo in bolletta, una società idrica gestita male non avrebbe generato utili da distribuire ai suoi azionisti. In un altro caso, accaduto quasi 20 anni fa, le cose andarono in maniera per certi versi speculare. Dopo il disastro di Chernobyl, il più grave nella storia dell’energia nucleare, in Italia si cominciò a discutere la possibilità di limitare la produzione di energia nucleare. In questo clima, Radicali e Verdi proposero un referendum per impedire la costruzione di nuove centrali. Mentre alcuni no-triv e molti degli attivisti per l’acqua pubblica hanno pubblicizzato i loro referendum come se avessero una portata ben più ampia di quella che avrebbero realmente avuto, vent’anni fa accadde l’opposto.
Persino i Verdi, all’epoca i più decisi fautori del referendum, avevano come obbiettivo quello di bloccare la costruzione di nuove centrali e non certo quello di fermare dall’oggi al domani l’intera produzione di energia nucleare nel nostro paese.
Una vittoria del «sì», infatti, si sarebbe limitata a rendere molto più difficile e quasi impossibile la costruzione di nuove centrali. Il primo quesito proponeva di abolire la legge che stabiliva compensi economici per quei comuni sul cui territorio fosse stata costruita una centrale.
Il secondo proponeva di abrogare la legge che consentiva al governo di imporre la costruzione di una centrale nucleare in caso le procedure consensuali con gli enti locali fossero falliti. Gran parte degli esperti immaginava che una vittoria del «sì», che tutti all’epoca davano per scontata, avrebbe portato a uno spegnimento graduale delle centrali, come la Svezia aveva già deciso di fare nel 1980. In questo modo le centrali sarebbero rimaste attive e avrebbero continuato a produrre energia per tutta la durata prevista per la loro vita produttiva, diverse decine di anni all’epoca. Ma dopo il voto, l’amplissimo successo dei «sì» e la volontà del governo Craxi di consolidare i vantaggi politici del referendum portarono a un risultato superiore a tutte le aspettative: non solo venne bloccata la costruzione delle nuove centrali nucleari, ma quelle ancora attive vennero spente molto prima del tempo, causando una perdita che oggi viene calcolata in miliardi di euro.
In un certo senso, anche una vittoria dei no-triv potrebbe portare a un risultato simile, anche se probabilmente molto meno costoso. Se il «sì» ottenesse la maggioranza, saranno lasciate sul fondo del mare migliaia e migliaia di metri cubi di gas e petrolio che avrebbero potuto essere estratti ed utilizzati.
È difficile che il nostro paese abbandoni completamente la sua dipendenza da carburanti fossili nei prossimi quindici anni, quando scadranno le attuali concessioni e questo significa che il gas e il petrolio mancanti dovranno essere importati dall’estero, a un prezzo maggiore. E c’è da mettere in conto anche la questione occupazionale: la filiera industriale delle piattaforme offshore è concentrata nella provincia di Ravenna, dove da lavoro a 5.800 persone, secondo i dati di Roca, l’associazione che rappresenta le imprese del settore. Anche in caso di vittoria dei «sì» ci vorranno comunque ancora anni prima che le concessioni scadano e le piattaforme vengano chiuse e questo permetterà di attutire la caduta, ma si tratterebbe comunque di un colpo molto duro per un settore già in crisi.
È possibile sostenere che valga la pena pagare questo prezzo in più in nome delle battaglia politica a favore delle energie rinnovabili. Ma è importante che, a differenza dei referendum avvenuti in passato, il pubblico sia ben informato su qual è davvero la posta in gioco con il prossimo referendum.