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 2016  aprile 04 Lunedì calendario

La vera storia dei quattro italiani rapiti in Libia

Il deserto della Libia è infestato di predoni e tagliagole di ogni risma. Ma è anche gonfio di gas e di petrolio. Chi lo frequenta lo paragona ai bar di Guerre stellari dove puoi incontrare di tutto e fare ogni genere di affari. L’ex Ente nazionale idrocarburi (Eni) è la principale società energetica straniera che opera in Libia. Il progetto su cui ha investito maggiormente negli ultimi anni è il Western Libyan gas project che conduce in collaborazione con la Noc (National oil company), la compagnia di Stato libica. Obiettivo della partnership è esportare e commercializzare in Europa il gas naturale prodotto in Libia. I principali campi di estrazione, raffinazione e distribuzione sono quelli di Mellitah e di Wafa. Nel secondo verrebbero estratti tra i 12 e i 15 milioni di dollari di gas al giorno.
Il 19 luglio del 2015 quattro tecnici del cantiere sono stati rapiti da una banda di predoni e l’1 marzo scorso due di loro sono morti in una sparatoria. Si è trattato di un rapimento lungo 229 giorni pieno di punti oscuri e gestito dal nostro governo in modo quanto meno opinabile. Per fare la radiografia di quello che è realmente successo Libero ha ascoltato la versione dei due superstiti, Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, quella delle vedove di Salvatore Failla e Fausto Piano, ha parlato con magistrati e 007 che si sono occupati del caso oltre che con il sindaco di Zuara, Hafed Jumaa ben Sassi, ascoltato come testimone presso il tribunale di Tripoli. Dalla nostra inchiesta emerge l’incapacità delle aziende di proteggere i lavoratori e quella del governo di intavolare in tempi ragionevoli una trattativa efficace, trascurando colpevolmente possibili e concreti canali di comunicazione con i rapitori. Una verità che Libero in queste pagine riscostruisce in esclusiva.
PROLOGO
Il 18 gennaio 2015 il ligure Gino Pollicardo e il siciliano Salvatore Failla, vengono trasferiti dalla loro azienda, la Bonatti spa di Parma, specializzata in montaggio e manutenzione di macchinari industriali, nel centro di estrazione dell’Eni di Wafa, al confine con l’Algeria e a circa 500 chilometri dalla costa. Gino è vicecapo cantiere, Salvatore è addetto all’assemblaggio di generatori e turbine. Calcagno li raggiungerà a giugno, Piano, vi sostituisce in alcuni periodi il meccanico delle macchine operatrici. A febbraio viene attaccato dall’Isis il centro della Total di Mabrouk, nella Libia orientale. In tutta fretta l’Eni mette in sicurezza una ventina di tecnici da Mellitah (il campo sulla costa) su una piattaforma offshore. Da Wafa sei dipendenti vengono trasferiti in aereo direttamente a Malta. Agli uomini della Bonatti a Mellitah viene detto che si tratta di un cambio di turno, mentre a Wafa non arriva nessuna comunicazione. Quel giorno Pollicardo e Failla notano che il responsabile Eni del cantiere è particolarmente nervoso. All’improvviso sparisce e dall’aeroporto di Wafa comunica a Gino che stanno lasciando l’area con un volo speciale e che se vuole c’è posto anche per lui. Ma Gino non ha ricevuto nessuna comunicazione in proposito dalla propria azienda. Per questo chiama l’operation manager della Bonatti Dennis Morson che verso sera lo ricontatta: «Abbiamo raggiunto l’accordo con l’Eni, noi non evacuiamo».
Per i quattro tecnici italiani è l’inizio della fine. I protocolli di sicurezza non cambiano. I lavoratori continuano a spostarsi in auto e senza scorta. I trasferimenti via nave, che vengono considerati i più sicuri, sono rari. Per esempio Fausto, Gino e Salvo non si sarebbero mai mossi via mare, Filippo una sola volta. Addirittura Gino, ad aprile, attraverserà il deserto da Djerba a Wafa in auto. Un viaggio di circa 600 chilometri con il rischio concreto di finire tra le mani di bande di rapitori. I campi, al contrario del personale in viaggio, vengono protetti da uomini armati. «La colpa è anche dell’Eni che non ha controllato che il contrattista (la Bonatti ndr) applicasse le norme di sicurezza che lei stessa aveva stabilito, come l’uso della nave per gli spostamenti» commentano i due tecnici sopravvissuti contattati da Libero.
IL RAPIMENTO
A inizio giugno i predoni sequestrano Youssuf Al Shamani, l’amministratore della Mellitah oil and gas, joint venture tra Noc ed Eni. Viene liberato dopo soli quattro giorni e si parla del pagamento di un cospicuo riscatto. Gli italiani non saranno così fortunati. Il 19 luglio i nostri tecnici, in ferie in Italia, devono far ritorno in Libia. La tabella di viaggio ufficiale della Bonatti è la seguente: aereo da Roma fino a Djerba, in Tunisia, con scalo a Malta; pernottamento in albergo; l’indomani, con la luce del giorno, spostamento in auto fino al porto tunisino di Zarzis e da lì, a bordo di una chiatta, prosecuzione via mare fino a Mellitah. L’indomani Gino e Salvo sarebbero partiti per Wafa, gli altri due sarebbero rimasti sulla costa. Però mentre stanno facendo scalo Malta, i quattro vengono informati di una variazione di programma. Morson, chiama Calcagno e gli comunica che a Djerba troveranno un auto pronta a portarli a Mellitah e che dormiranno nel campo. Viaggeranno con l’oscurità. Alle 18 italiane i tecnici della Bonatti incontrano l’autista. L’hanno già visto, ma non è uno di quelli che utilizzano abitualmente nei campi. L’uomo li carica a bordo di una monovolume a sette posti e parte. Il tragitto è di circa 200 chilometri, il confine dista meno di 160. Verso le 20 la comitiva entra in Libia. Da quel monento il guidatore parla spesso al telefonino in arabo. Alle 21 e 40, quando le ciminiere di Mellitah sono già all’orizzonte, due pik-up tagliano la strada al mezzo con a bordo gli italiani. Dalle jeep scendono quattro predoni urlando «calma» e «quiet» in inglese. Parlano solo arabo e un po’ di francese. Dopo aver allontanato e immobilizzato l’autista, salgono a bordo della monovolune, due davanti e due dietro, e riprendono il viaggio che dura quasi due ore, probabilmente anche per confondere i sequestrati. Prima di arrivare a destinazione i rapiti vengono bendati, denudati e privati degli effetti personali, compresi i cellulari. La prima cella è una piccola stanza senza bagno, la seconda è un po’ più grande e si trova alla periferia di Sabratha, meno di trenta chilometri da Mellitah. La distanza tra i due covi è di circa quindici minuti. Per dormire hanno a disposizione materassini da culla e indossano solo boxer e magliette che non cambieranno sino a gennaio. Il menú prevede legumi, pasta scotta e pane raffermo. Per i bisogni fisiologici utilizzano un secchio e un bottiglione.
Sin dall’inizio il leit-motiv dei sequestratori è sempre lo stesso: a loro interessano solo i soldi. Il governo sembra spiazzato e il premier Matteo Renzi si domanda retoricamente che cosa ci facessero quattro tecnici italiani in Libia. «La risposta la può trovare la mattina quando si alza e accende il gas per farsi il caffé» è la replica che recapita attraverso Libero la vedova di Fausto Piano, Isabella.
I PRIMI CONTATTI
Il 22 e il 23 luglio i famigliari dei rapiti vengono convocati presso il ministero degli Esteri a Roma. I funzionari della Farnesina spiegano che statisticamente questi rapimenti durano 6-7 mesi. Successivamente diranno che i tempi per la liberazione si sono allungati a 10-12 mesi. Secondo la nostra Intelligence oltre quella durata il sequestro diventa particolarmente rischioso, anche per i costi che comporta. Alla Farnesina i parenti parlano con tre funzionari: Edoardo, Thomas e Gianluca, i quali secondo i famigliari non erano in grado di dare alcuna risposta. «Non sapevano niente di quello che stava accadendo» ricorda Isabella Piano. «Un giorno mi dissero: “Stiamo instradando la vacca!”. Mi promisero che mio marito non sarebbe rimasto nelle mani dei rapitori per più di sei mesi e invece è tornato dopo otto. Morto». Nella Capitale i congiunti vengono invitati a compilare quattro piccoli questionari con alcune domande per i propri cari. I quesiti, di carattere personale, serviranno ad avere la certezza che a rispondere siano i sequestrati e non altri. Il 3 agosto i predoni chiedono ai rapiti un contatto telefonico per poter inoltrare la loro richiesta. I tecnici, ormai privi dei cellulari, riferiscono a memoria quello di Morson. Il 9 dello stesso mese i carcerieri, impazienti, pretendono che gli ostaggi sollecitino il pagamento in una registrazione. Alla vigilia di Ferragosto fanno ascoltare agli italiani un file audio in inglese con quattro domande. Dicono che gliele invia l’"avvocato della Bonatti”. Domandano a Filippo la data del matrimonio, a Salvatore di che colore fosse la sua vecchia auto (una Ford rossa), a Gino l’ultimo regalo per la figlia (una Vespa) e a Fausto dove avesse trascorso l’ultima vacanza con la moglie (in Francia). I quattro pensano di essere quasi liberi. Ma purtroppo da quel momento in poi la realtà si rivelerà assai diversa.
4 MILIONI
Nei fine settimana vengono spesso tenuti a digiuno e picchiati selvaggiamente: i loro carcerieri li legano con catene, li colpiscono con i calci dei fucili, gli puntano le pistole alle teste. Gli italiani deducono che il giovedì i sequestratori contattino l’Italia e che dopo il fallimento delle trattative si sfoghino con loro. Il 26 settembre avviene uno dei pestaggi più cruenti. A inizio ottobre, evidentemente per accelerare la trattativa, chiedono insistentemente e a suon di botte i numeri dei cellulari di parenti e amici dei sequestrati e le loro password di Facebook. Gino e Salvo alla fine accettano di riferire quanto richiesto per interrompere le violenze. I carcerieri registrano degli appelli con la voce dei prigionieri e il 13 ottobre iniziano a chiamare le loro case da due diversi numeri libici. La Farnesina ordina ai famigliari di non rispondere. Il 21 novembre Rosalba Failla riceve l’ultima chiamata. Intanto nel covo le violenze proseguono e da settembre gli ostaggi non possono più nemmeno fare la doccia, uno dei possibili segnali di un’imminente liberazione (sino ad allora ne avevano fatte due o tre). Il 28 novembre arriva il momento di variare il nascondiglio. Quando gli annunciano il trasloco, Salvatore domanda angosciato: «Non è che ci vendete?». La risposta è negativa: «Allah non vuole che vi venga fatto del male». Nella nuova cella i quattro comprendono di non avere cambiato padrone perché sentono sempre le stesse voci di donne e di un bambino. I sequestratori gli ripetono: quando ci daranno i soldi vi manderemo via. Parlano solo di soldi. Il 30 novembre effettuano altre registrazioni dicendo che qualcuno si sta interessando a loro e che gli audio servono per il contatto, per il «votre ami», il vostro amico. Ma il 19 dicembre riprendono le percosse e le ritorsioni. Il 23 i rapitori girano dei video, sostengono per Al Jazeera. Uno dei bandini (entrano sempre nella stanza uno per volta) afferma che l’accordo era stato raggiunto a 4 milioni anche se la cifra iniziale era di 16, ma che «l’amico ha interrotto la trattativa e chiuso i contatti». Il referente italiano, presumibilmente un uomo dell’Aise, la nostra Intelligence militare che si occupa delle questioni estere, non risponderebbe più da cinque giorni (dal 18 dicembre). Il carceriere soggiunge: «Ma vedrete che alla fine pagheranno, lo hanno sempre fatto: per il dottore, per il giornalista, per gli operai delle strade...». Il riferimento è probabilmente al medico catanese Ignazio Scaravilli e a Francesco Scalise e Luciano Gallo dipendenti di una compagnia edile. Nel 2011 nel deserto c’è stato un rapimento lampo di quattro giornalisti, tra cui Domenico Quirico.
TRATTATIVA PARALLELA
Queste le informazioni che i sequestrati hanno ricevuto giorno per giorno dai loro aguzzini. Ma c’è qualcosa che forse nessuno gli ha mai riferito e cioé che durante il loro rapimento le nostre istituzioni non hanno preso in considerazione due credibili tavoli di negoziazione.
Per ricostruire questo retroscena dobbiamo tornare indietro con i ricordi al 26 agosto del 2015. A Zuara, sulla costa libica, un funzionario dell’Aise, incontra il sindaco Hafed Jamaa Ben Sassi, di origine berbera. Durante la riunione i due parlano della situazione politica in Libia, ma anche dei nostri sequestrati. Il 22 settembre, durante un altro abboccamento, quest’ultimo argomento viene approfondito. Il sindaco, davanti a una foresteria di Zuara che usa per ospitare le personalità in visita alla città, si candida per risolvere il caso mettendo direttamente in contatto l’Aise con i malviventi, probabilmente berberi come lui. Assicura che i tecnici sono imprigionati a 50 chilometri da lì. Il nostro 007 mette in moto la macchina della trattativa parallela. L’1 ottobre arriva la richiesta: 20 milioni in cambio della liberazione. Il funzionario italiano riferisce la cifra al suo direttore, Alberto Manenti, e questi passa la palla al caporeparto della “controproliferazione economica”, la divisione che si occupa anche dei sequestri. Probabilmente subito dopo l’informazione viene girata al “gruppo esfiltrazione”, gli specialisti, una decina in tutto, che si occupano specificamente di rapiti. Il 30 dicembre lo 007 in contatto con il sindaco chiama il desk dell’Aise che segue la Libia e in un incontro romano piuttosto teso riceve la comunicazione che la gestione della trattativa è stata affidata «all’azienda». La Bonatti? L’Eni? Quel che è certo che, secondo un testimone di Libero, i vertici dell’Aise e del governo sostengono da tempo che «nessuno meglio dell’Eni può gestire sul campo gli interessi dell’Italia». Di fronte al disappunto del funzionario, il superiore lo richiama all’ordine con un freddo linguaggio burocratico: «Attieniti ai canali istituzionali senza discutere».
Il giorno successivo lo 007 comunica la risposta dell’Aise al sindaco di Zuara. I due si incontrano nella solita foresteria davanti a un té verde alla menta. Il libico appare incredulo: «Voi italiani...» sussurra, scuotendo la testa. Ma se con Hafed ben Sassi è andata così, il 2 aprile scorso, su una piccola emittente locale, Tele Liguria Sud, durante una trasmissione con Pollicardo, il direttore della Camera di commercio italo-libica Gianfranco Damiano ha svelato un altro sconcertante esempio di superficialità o, peggio, di negligenza, da parte dei nostri funzionari governativi: «La mattina dopo il rapimento mi ha chiamato una persona da Tripoli e mi ha detto: “Abbiamo saputo quello che è successo facci sapere se vi serve una mano, perché noi sappiamo dove sia questa gente (…)”. Io ho avvertito la Farnesina nell’arco di dieci minuti, ma nessuno mi ha cercato e questo è un dato di fatto (…) io potevo fare da collegamento (…) Sono stato un giorno in trepidazione pensando che succedesse qualcosa. Questa cosa mi è tornata in mente con grandissima amarezza quando ho saputo della scomparsa dei due».
L’ULTIMO MIGLIO
In ogni caso la versione del sindaco e dello 007 e quella dei due sopravvissuti nei punti cruciali coincidono. A ottobre c’è stata un’accelerazione a dicembre uno stop. Ma i video per Al Jazeera evidentemente sortiscono il loro effetto e per non far mostrare in tv i nostri concittadini che implorano pietà durante il palinsesto natalizio, la trattativa riprende. Il 6 gennaio i rapitori scattano foto ai quattro italiani con in mano un cartello con la data dell’Epifania; il 20 gennaio gli procurano biancheria pulita, quattro tute da calcio da indossare per la liberazione, e gli concedono l’ultima doccia. Il 26 gennaio viene realizzato un nuovo video con altri fogli con indicato il giorno. Ma la scarcerazione non arriva. Per soldi? Per motivi logistici? Non lo sappiamo. Il 19 e il 24 febbraio vicino al covo si odono forti esplosioni. Nei dintorni gli americani con i loro droni uccidono jihadisti tunisini e due ostaggi serbi. I rapiti pensano di essere in pieno teatro di guerra. Il 29 febbraio i sequestratori annunciano ai prigionieri l’ultimo trasloco. Tentano di portare via Salvo e Fausto, i più esili, forse perché li devono fare entrare in un’auto ricolma di bagagli. Dopo un’ora rinunciano per motivi ignoti. L’1 marzo i due vengono nuovamente prelevati, mentre ai loro compagni viene lasciata una bottiglia con quattro litri d’acqua. Probabilmente i predoni pensano di tornare a recuperarli qualche giorno più tardi. Ma nel trasferimento la carovana viene sterminata in un conflitto a fuoco, si sospetta con forze dell’ordine di Sabratha. Il 4 marzo, dopo tre giorni di tentativi, Filippo e Gino, i superstiti, riescono a evadere dalla cella e a mettersi al sicuro con l’aiuto di un poliziotto incontrato in strada. Per loro è stato pagato un riscatto? La domanda per ora resta senza risposta. Di certo i nostri due connazionali, una volta salvi, non hanno avuto contatti con i nostri rappresentanti istituzionali: non hanno incontrato nessun agente segreto e solo due giorni dopo la loro liberazione hanno incrociato incidentalmente nel municipio di Sabratha un funzionario dell’ambasciata. In altre occasioni i nostri concittadini sono stati riaccompagnati in Italia dai vertici dell’Aise (per esempio nel caso della giornalista Giuliana Sgrena) o dal capo dell’unità di crisi della Farnesina (ultimamente è successo a Scaravilli). Qui non è stato così, forse a causa dell’imbarazzo per la disastrosa gestione dell’emergenza o forse per altre e più misteriose ragioni. Questo è il severo giudizio di uno 007 contattato da Libero: «Se fosse vero che non eravamo presenti a Sabratha sarebbe gravissimo. Quasi un segnale agli Stati Uniti che l’Italia non paga più per i suoi sequestrati. Ma questa scelta di sudditanza sarebbe antidemocratica e incostituzionale». Alla fine Filippo e Gino hanno dovuto attendere sino a domenica 6 marzo prima di poter tornare in Italia e qui non sono stati nemmeno visitati da un medico (che invece i libici hanno messo a disposizione): «Gli addetti al nostro rientro non riuscivano a trovare neppure un elicottero e quando ce l’hanno fatta lo abbiamo atteso invano per sei ore, senza sapere dove fosse» denunciano i sequestrati. Nel frattempo i cadaveri di Failla e Piano, nonostante la contrarietà delle famiglie, sono stati consegnati per l’autopsia alle autorità libiche che li hanno praticamente macellati e restituiti il 9 marzo, oltre una settimana dopo l’uccisione. «Il Governo non ha liberato mio marito da vivo e non è riuscito a farlo nemmeno da morto» è l’amaro commento di Rosalba Failla.