La Stampa, 4 aprile 2016
Maldini nei ricordi del Trap
Vox populi, vox dei. «Cruyff e Maldini campioni veri del tanto rimpianto calcio di ieri», c’era scritto su uno striscione appeso ieri dai tifosi bergamaschi prima di Atalanta-Milan. Un messaggio che all’apparenza sa di nostalgia, ma che nel profondo dei sentimenti supera ogni confine e rende giustizia. Giovanni Trapattoni conosceva bene entrambi: ci aveva giocato contro e insieme per poi ritrovarseli come colleghi di panchina. L’emozione è forte.
Mister, chi era per lei Cesare Maldini?
«Più che un amico, un fratello maggiore. Mi ha preso per mano nel Milan e mi è sempre stato vicino: è stato il primo a sostenermi e a incoraggiarmi. Sia da giocatore che da tecnico».
Giocavate fianco a fianco in difesa nella squadra di Nereo Rocco, di cui siete stati vice allenatori. Anche se lei non è triestino, era un segno del destino?
«Eravamo in simbiosi per i ruoli che dovevamo ricoprire, ma c’era qualcosa in più di un rapporto tra compagni di squadra. Cesare è stato un grande giocatore e un eccezionale capitano del Milan, però era anche una splendida persona. Stavamo sempre insieme e stavamo bene».
Insieme siete saliti sul tetto d’Europa…
«È il ricordo più grande e più bello: il primo giocatore italiano ad alzare la Coppa dei Campioni. Sono passati quasi 53 anni, ma sembra ieri: il Milan che batte tutti, anche il Benfica di Eusebio e lui che a Wembley alza il trofeo da capitano del Milan. È stato il momento più alto del calcio italiano».
Più dei successivi trionfi europei dei club italiani o dei Mondiali vinti dalla Nazionale?
«Sono cose diverse: tutte le vittorie sono uniche e belle, ma quella era la prima volta che una squadra del nostro Paese conquistava la Coppa dei Campioni. Fu come una rivoluzione».
Con Maldini lei ha giocato per nove stagioni nel Milan, dal 1957 al 1966, ereditandone ruolo e leadership. E poi anche la panchina, nel 1974, durante il finale di campionato.
«Vero, la società decise questo passo e lui mi aiutò dandomi consigli, nonostante la delusione. Parlavamo sempre e ora posso dire che grazie a quel confronto costante sono riuscito a diventare l’allenatore e la persona che sono».
Che cosa lascia in eredità?
«Il rapporto umano: era un campione con un cuore enorme. Ti dava fiducia anche con uno sguardo e non si vincono tre Europei Under 21 di fila per caso: con i giovani ci sapeva fare».
È fondato il timore di perdere un’eredità unica?
«Sì. Il calcio italiano va verso una visione mondiale, i valori si sono smarriti. Quelli che sono stati gli affetti che ci distinguevano e che erano la forza di Maldini, ovvero il cuore e la passione, si sono persi. E questa è grande perdita. Per tutti».