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 2016  aprile 04 Lunedì calendario

Cosa si dice tra gli operai dell’ultima acciaieria britannica che sta per chiudere

A conclusione del turno, le incerte figure che escono a ondate dai cancelli, tra colonne di fumo, spruzzi di fiamme zampillanti e prime ombre della sera, sembrano dannati provenienti dall’inferno. Eppure per loro il gigantesco altoforno rappresenta un luogo di salvezza. «Lavoro lì dentro da vent’anni», dice Barrie, levato il casco protettivo. «Questo posto è la mia vita, la mia identità, la mia storia». Non per niente lo chiamano “The Abbey”, l’abbazia, in memoria di un antico monastero di cui sorge ancora un muro dentro l’immenso centro siderurgico. Il culto predicato al suo interno era la produzione dell’acciaio, uno dei due motori della rivoluzione industriale: ma l’altro, il carbone, ha chiuso l’ultima miniera l’anno scorso e adesso rischia di scomparire anche questo. La Tata, conglomerato indiano del settore, ha annunciato l’imminente dismissione di tutte le acciaierie della Gran Bretagna, diventate sue un decennio fa, a meno di trovare un compratore, che tuttavia cerca inutilmente da mesi. Quarantamila persone, fra dipendenti, fornitori e indotto, rischiano di perdere il lavoro. Da giorni l’acciaieria gallese di Port Talbot, la più grande del gruppo, è meta di politici, sindacalisti, giornalisti. Vengono in cerca di una soluzione. O per assistere alla conclusione di un’epoca. L’ultima cattedrale dell’acciaio britannico sorge a tre ore di treno da Londra, 15 chilometri a sud di Swansea, lungo la costa del Galles. Nel 1900 qui costruirono un porto da cui si esportavano 3 milioni di tonnellate di carbone l’anno. Dal commercio marittimo nacque una piccola città che ora dipende interamente dall’acciaieria: in ogni famiglia c’è qualcuno che ci lavora o vi è collegato. È stato a lungo il maggiore impianto siderurgico d’Europa, base di un’industria che nel 1970 impiegava in tutto il Regno Unito 325 mila persone e produceva 30 milioni di tonnellate di acciaio annue. Poi, il declino. La Steel Company of Wales è stata inglobata nella British Steel, la British Steel è stata privatizzata (dalla Thatcher) nella Corus, questa si è fusa con un’azienda olandese e nel 2007 è stata acquisita dalla Tata. Adesso impiega 30 mila persone, produce 12 milioni di tonnellate l’anno (la metà dell’Italia) e perde, soltanto a Port Talbot, 1 milione di sterline al giorno. «Non possiamo tollerare un simile deficit per più di qualche settimana», avverte il consiglio di amministrazione da Mumbay. «Siamo alla mercé dei profitti globali dell’India», commenta John Warman, per trent’anni operaio nell’acciaieria cittadina. «Abbiamo perso il controllo sul nostro futuro». Un tempo a Delhi sedeva il Viceré inglese, ora nel cda della Tata a Mumbay non c’è nemmeno posto per l’amministratore delegato della filiale britannica: l’ex-colonia decide il destino dell’ex-colonizzatore. Ma l’India non ha tutte le colpe. La Tata ha salvato altre due aziende britanniche in difficoltà: Jaguar e Land Rover. Il colpevole, secondo alcuni, è la Cina, che oggi ha più del 50 per cento del fatturato mondiale dell’acciaio e difende il primato con il “dumping”, vendendo a prezzi inferiori a quelli di produzione: accusa che il primo ministro britannico David Cameron sostiene di avere rinfacciato l’altro giorno al presidente cinese Hu Jintao. Senonché il Financial Times, citando fonti francesi e italiane, rivela che è stata la Gran Bretagna a bloccare le tariffe doganali punitive che l’Unione Europea voleva applicare all’acciaio cinese, come fa l’America per proteggere la propria produzione. Perché Londra tiene più all’import-export con Pechino che a proteggere l’industria dell’acciaio. E perché acquistando dalla Cina un terzo del fabbisogno di acciaio favorisce altre industrie, giudicate più importanti, come quella dell’auto. «Ci avete traditi», dice l’operaio Alum Davies al ministro del Business Sajid Javid, accorso al capezzale dell’acciaieria interrompendo la vacanza che faceva con la figlia in Australia. Imbarazzato, il ministro promette che il governo farà di tutto per trovare un compratore. Forse salterà fuori una soluzione parziale e temporanea, perlomeno per salvare la faccia a Downing street. «Non vogliamo mezze soluzioni», arringa la folla Stephen Kinnock, deputato laburista eletto a Port Talbot, figlio di Neil che guidò il Labour negli anni ’80 e marito dell’ex-premier danese Helle Thorning-Schimdt. «Nel 2008 il governo ha nazionalizzato le banche per salvarle dalla bancarotta, perché non può fare altrettanto per le acciaierie?». Ma a Londra Cameron risponde che «la nazionalizzazione non è un’opzione». I 40 mila lavoratori a rischio rappresentano appena lo 0,12 per cento della forza lavoro britannica. A molti appaiono un’industria senza futuro. È della settimana scorsa la notizia che l’economia dei servizi ha raggiunto l’80% del pil nazionale. Certo, nemmeno chiudere tutto sarebbe semplice: solo smantellare l’acciaieria di Port Talbot costerebbe un miliardo di sterline. Per non parlare dei costi di ripulire l’ambiente: questa minuscola cittadina, dopo un secolo di siderurgia, ha il triste record di luogo più inquinato di Gran Bretagna. «Sì, questa città è cresciuta sull’acciaio», commenta il sindacalista Alan Combs, «è l’acciaio che ha messo cibo sulle nostre tavole, orgoglio nelle nostre vite». In quella casa, raccontano gli operai, è nato l’attore Anthony Hopkins. In quella scuola studiava Richard Burton, prima di andare a Hollywood e sposare Liz Taylor. Ma ingresso e finestre del Plaza Cinema, il cinematografo locale, sono sprangati da anni: e i murales con le facce delle due stelle del cinema irriconoscibili. Al calar della sera, uomini, donne e bambini si stringono attorno alla grande fabbrica in riva al mare, come fedeli che pregano per un miracolo. Davanti a loro, nella gigantesca fornace, zampilla ancora il fuoco che trasforma il ferro in acciaio: la fonte di una materia che sembrava indistruttibile e che pare diventata fragile, debole, obsoleta.