la Repubblica, 4 aprile 2016
Dopo 16 anni di carcere il testimone chiave del caso Ilaria Alpi dice di essere stato pagato per mentire
C’è un cittadino somalo che ha trascorso 16 anni in carcere per un crimine che non ha commesso. Si chiama Hashi Omar Hassan. Tre Corti d’appello e una sezione della Cassazione nel 2002 lo hanno riconosciuto colpevole dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, i giornalisti del Tg 3 della Rai assassinati a Mogadiscio il 20 marzo del 1994. Ma la sua condanna definitiva a 26 anni si basa su due fragili prove che, con il tempo, si sono rivelate inconsistenti: un vago riconoscimento fotografico e l’accusa di un testimone, Ahmed Alì Rage, detto “Gelle”, che adesso ha ritrattato ufficialmente la sua versione sostenendo di «essere stato pagato dalle istituzioni italiane» per incastrare il suo connazionale.
Fino al giugno del 1997, Rage era uno dei tanti somali che soffriva la più spietata guerra civile di tutta l’Africa orientale. Portato in Italia assieme ad altri 16 somali che rivendicavano un risarcimento per le presunte violenze subite da parte degli italiani inquadrati nella missione Unisom, ha finito per diventare l’architrave di tutto l’impianto accusatorio del processo Alpi-Hrovatin. L’agguato mortale ai due inviati e l’emozione suscitata avevano bisogno di un colpevole. E soprattutto di un movente che distogliesse l’attenzione sul probabile scopo di quell’attentato. Un scopo inquietante e dalle conseguenze imprevedibili per il nostro governo: eliminare due tenaci giornalisti entrati in possesso di segreti inconfessabili. Quel duplice omicidio doveva essere semplicemente il tragico epilogo di una tentata rapina.
Hashi Omar Hassan oggi gode del regime di semilibertà. Dal giugno scorso vive in una struttura nel nord Italia per l’affidamento in prova e cerca di riprendersi da un incubo che dal 1998 lo ha tenuto dietro le sbarre con l’accusa di concorso in omicidio. Ma da domani, davanti alla Corte d’appello di Perugia, può sperare di vedere finalmente riscattata la sua immagine, la sua vita e soprattutto una verità che non ha mai smesso di sostenere. Dopo una serie di rinvii, gli avvocati difensori Douglas Duale e Antonio Moriconi hanno ottenuto la revisione del processo.
Dopo la sua testimonianza, “Gelle” è sparito dalla circolazione. Non ha confermato le accuse nei diversi processi, non è stato messo a confronto, non ha colmato molte lacune del suo racconto. Nessuno lo ha mai cercato. Ufficialmente era irreperibile. Eppure, già da dieci anni tutti gli organi inquirenti conoscevano il Paese, la città, l’indirizzo dove viveva. A Birmingham, in Inghilterra, dove si è sposato, ha fatto cinque figli, lavora alla luce del sole e percepisce uno stipendio. Solo un mese fa, dopo la desecretazione degli atti della Commissione parlamentare d’indagine, si è scoperto che il 28 febbraio del 2006 la Direzione della polizia criminale del ministero degli Interni lo aveva comunicato alla Commissione stessa. Ascoltare il supertestimone sarebbe stato essenziale. Perché il giorno in cui Hashi venne condannato, “Gelle” chiamò un giornalista della
Bbc in lingua somala a Roma e gli svelò una verità sorprendente. «Ho accusato qualcuno che non c’entra nulla con l’omicidio dei due giornalisti. Per farlo sono stato pagato dalle istituzioni italiane». La stessa versione è stata ribadita il 18 febbraio 2015 ad una giornalista di “Chi l’ha visto?” e quattro giorni fa ai pm della Procura di Roma volati in Inghilterra per una rogatoria. La clamorosa smentita di “Gelle” è una bomba. Può scoperchiare la pentola dove si sono addensati i tanti depistaggi di una vicenda ancora tutta da scrivere. Il supertestimone si rifiutava di accusare il suo connazionale. Lo fece solo il 10 ottobre del 1997, dopo un incontro tra i dirigenti della Digos che lo interrogavano con l’uomo che lo aveva portato in Italia assieme a 16 somali: l’ambasciatore Giuseppe Cassini, all’epoca dei fatti emissario per il governo in Somalia. Da domani sfileranno in aula alcuni dei principali testimoni di quella tragedia. Dallo stesso ambasciatore Cassini, al giornalista Massimo Alberizzi, all’imprenditore Giancarlo Marocchino, l’uomo d’affari con molti interessi nel Paese del Corno d’Africa. In attesa di ascoltare, per la prima volta in un’aula di giustizia, la versione dell’uomo che può aprire l’armadio dei misteri sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.