la Repubblica, 4 aprile 2016
C’eravamo dimenticati degli alawiti in Siria
Una nuova identità alawita per una nuova identità siriana, laica e democratica, finalmente emancipata da ogni settarismo. Per riedificare su tale base l’unità della Siria. È questo l’ambizioso programma proposto dagli anonimi autori della “Dichiarazione di riforma dell’identità alawita”, rivelato ieri da Repubblica insieme al Figaro e a Die Welt. Operazione di notevole finezza intellettuale, firmata da un finora ignoto “Gruppo di iniziativa alawita”. E soprattutto, di grande effetto mediatico. Ma qual è il suo senso geopolitico, quale il concreto impatto?
Consideriamo il contesto. Negli ultimi sei mesi l’intervento militare russo in Siria ha cambiato i rapporti di forza sul terreno. E anche se Putin ha avviato un ritiro peraltro incompleto dal teatro di guerra, l’impulso offerto dai Sukhoi e dai missili russi ha consentito alle truppe regolari di Damasco, appoggiate dai miliziani libanesi di Hezbollah e dall’Iran, di recuperare quote rilevanti di territorio. La riconquista di Palmira, strappata allo Stato Islamico, è il simbolo della riscossa del regime.
Ma il futuro di Bashar al Assad sarà deciso dalle potenze mondiali e regionali coinvolte. Gli occidentali tentano dall’inizio della crisi di individuare un’alternativa – ovvero un leader militare autorevole e affidabile – per scardinare dall’interno il potere del clan Assad. Le intelligence americana, britannica e francese hanno speso finora inutilmente denaro e influenze per raggiungere tanto obiettivo. Risultato: cinque anni dopo lo scoppio della rivolta, non si intravvede all’orizzonte una figura in grado di scalzare il dittatore. Il quale si accinge anzi a servirsi delle elezioni politiche del 13 aprile per rinfrescare con una mano di vernice pseudodemocratica la legittimità del suo potere.
Il timore che all’eventuale caduta di Bashar al Assad possa conseguire un vuoto politico presto riempito dai tagliagole dello Stato Islamico e da altre milizie jihadiste ha rafforzato a Washington la linea di chi punta a una pace di compromesso che salvi, almeno nell’immediato, la poltrona del presidente. Ciò significa passare per un’intesa con la Russia – interessata a salvare la sua influenza a Damasco, anche sacrificando il suo “figlio di puttana” – dentro e fuori della cornice offerta dal tavolo negoziale apparecchiato dall’inviato dell’Onu Staffan de Mistura.
Il documento dei riformatori alawiti, i quali si proclamano maggioranza nell’ambito della comunità – largamente minoritaria su scala siriana – che storicamente rappresenta l’architrave del regime, si offre come tentativo di emanciparsi in extremis dal settarismo e dal vittimismo che l’ha finora caratterizzata. Per aprire la strada alla riconciliazione con la maggioranza sunnita. Perciò il misterioso gruppo di capi religiosi, parlamentari, intellettuali e ufficiali delle Forze Armate che ha lanciato la piattaforma accenna a smarcarsi dal regime. Resta da stabilire la sua effettiva influenza sul terreno e nella stessa comunità alawita, dove i capi bastone hanno sempre prevalso sui leader spirituali. Il nucleo del regime di Damasco non può essere identificato solo con una setta religiosa, giacché si basa su relazioni di potere e su interessi economici che coinvolgono anche esponenti sunniti e cristiani, ma soprattutto l’intelligence e i vertici militari. Non tutti gli alawiti sono con Assad e non tutti gli assadiani sono alawiti.
Ma ammettendo che la rete dei firmatari sia davvero autorevole e consistente, perché tale generosa apertura ora che Bashar al Assad appare più forte di quanto sia mai stato durante gli anni di guerra? Forse qualcuno nelle stanze del potere si sta convincendo che il futuro dei siriani, in particolare quello del 10-15% di loro che segue la fede alawita, può essere salvato solo da una profonda, inclusiva riforma, benedetta dalle maggiori potenze. America e Russia in testa.
Anche prendendo per buone le intenzioni dei sostenitori della “Dichiarazione”, resta che il grado di decomposizione dello spazio siriano, svuotato di una buona metà dei suoi abitanti, rende arduo immaginarne la riforma su fondamenta unitarie. La storia dimostra che è relativamente facile distruggere uno Stato, quasi impossibile reintegrarlo nell’assetto originario.