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 2016  aprile 04 Lunedì calendario

In morte di Cesare Maldini

Gianni Mura per la Repubblica
Ieri allo stadio di Bergamo hanno esposto questo striscione: “Cruijff e Maldini campioni veri del tanto rimpianto calcio di ieri”. Di ieri e di più lontano. Cesare insegue il pallone quando a Trieste ci sono ancora le truppe tedesche. E a 12 anni con un amico vorrebbe presentarsi a Cervignano, alla caserma della Wehrmacht, e arruolarsi, ma solo perché sono belle le divise. Lo dissuade la madre a colpi di manico di scopa. Anche perché, col buio, i partigiani battevano alla porta dei Maldini, che avevano un forno a Servola. Chiedevano viveri e qualcuno apriva sempre. Figlio unico, un padre spesso lontano: omo de mar, stipendio garantito. Cresce in un mondo di donne, studia (non troppo) da odontotecnico. Non è la sua strada. Ho cominciato il ricordo di un grande uomo di sport, che ha attraversato sessant’anni di calcio, con uno striscione da stadio perché continuo a pensare che il calcio sia una cosa semplice, in fondo, e chi non ha gli occhi foderati da bandiere capisce perfettamente cos’ è un campione vero, non ha bisogno di sentirselo dire dalle tv o dai giornali.
Maldini che alza la coppa a Wembley, indossando la maglia rossa del Benfica battuto 2-1, è il flash di una vittoria storica, la prima di un’italiana in Coppa dei Campioni. Non era un pivellino, già passata la trentina. Era il capitano, il membro più ascoltato della commissione interna, l’occhio e a volte anche la testa di Rocco. Bastava un cenno alla panchina, a segnalare che non tornavano i conti, cioè le marcature. Così a Wembley ci fu lo scambio di compiti tra Benitez e Trapattoni (da Torres a Eusebio). Le stesse cose si dicevano di Picchi con Herrera. Terzino, libero, stopper. Bel mulo, bel ragazzo fin da giovane. Ed elegante in campo, vagamente alla Beckenbauer. “Alla spada preferisce il fioretto” scrivevano i giornali. Me lo ricordo bene: gli piaceva uscire dalla linea difensiva palla al piede, testa alta, cercare il dai e vai. Se perdeva la palla, era una maldinata, cioè una frittata. Non ne fece tantissime, ma la parola restò a indicare un errore dovuto alla ricerca di stile. Molto corretto, va aggiunto: in carriera solo 5 ammonizioni e un’espulsione dopo un battibecco con Sivori. Ma Omar, volendo, poteva portare al rosso anche san Luigi Gonzaga.
Esordisce nella Triestina e finisce sul taccuino degli osservatori del Milan. Milan- Triestina 4-0, Triestina-Milan 0-6. Dei 10 gol 6 li segna Nordahl, l’uomo di Cesare. Ma Bela Guttmann, allenatore ungherese, lo vuole ugualmente e il Milan lo paga 58 milioni. Prima aveva chiesto: «Signor Rocco, vado o no?». «Va, va, che magari se vedemo». Si sarebbero rivisti. A Milano e poi a Torino, «ma solo perché aveva insistito il signor Rocco». Da tecnico, si è sempre riconosciuto nella definizione di “figlio di Rocco”, come Bearzot, Trapattoni, Radice.
«Se allenava Triestina e Padova privilegiava la difesa, ma se allenava il Milan dava spettacolo, altro che catenaccio».
Quando Cesare smette di giocare, Rocco lo vuole al suo fianco. Lo manda ad Amsterdam a studiare l’Ajax prima della finale del 1969, poi vinta per 4-1. «Dime de ‘sto Cruijff, el zoga davanti o de drio?». Cesare prende un foglio e comincia a riempirlo di frecce, per segnalare i movimenti di Cruijff. Commento di Rocco: «Xe rivadi gli indiani? Bon, ciama l’Anguilla e faghe veder».
Secondo di Rocco e poi secondo di Bearzot in quell’irripetibile avventura che fu il Mundial 1982. Non più bel mulo, ma piacente cinquantenne. E padre di famiglia. Mirella, la moglie, studentessa al Berchet, l’aveva incrociato fuori dall’Assassino, il ristorante dei milanisti. Prima tre figlie: Monica, Donatella e Valentina. Poi tre figli: Paolo, Alessandro e Piercesare. E anche lui, come suo padre Albino, spesso fuori casa, ma presente per quanto gli consentiva il lavoro. Bella famiglia di sportivi: chi basket, chi volley, chi calcio. Paolo lo conosciamo tutti, per bravura e vittorie ha superato il padre. Due suoi figli sono nelle giovanili del Milan ma non ne parla volentieri perché all’inizio gli pesava essere per tutti il figlio di Cesare, così come prima a Sandro Mazzola era pesata l’etichetta di figlio di Valentino. Figli di Paolo, il peso che vuole risparmiargli, ma non sembra facile.
Con i giovani Cesare ci sapeva fare. Da tecnico del Parma aveva scoperto Ancelotti, da tecnico dell’Under 21 centrò una tripletta storica: tre vittorie di fila (1992, ‘94 e ‘96) negli europei, mai vinti prima e, dopo, solo da Tardelli nel 2000 e Gentile nel 2004. Vinse in Svezia contro la Svezia, in Francia contro il Portogallo, golden gol di Orlandini, e in Spagna, al Montjuic, contro la Spagna di Raul e De la Pena. L’Italia arrivò in 9 ai calci di rigore (espulsi Amoruso e Ametrano). Il capitano Panucci sbagliò il primo rigore, Fresi, Pistone, Nesta e Morfeo segnarono gli altri. Pagotto (preferito a Buffon) ne parò due. Wembley, Bernabeu, la tripletta: basterebbe anche meno per dire che Cesare Maldini nella storia del calcio ci è entrato passando per la porta grande.
E poi c’è l’altra Nazionale. Quella destinata ai mondiali del ‘98, che Sacchi lascia in mezzo al guado perché altre voci, altre istanze lo riportano a Milanello. Di nuovo Londra, è come dentro o fuori. Lancio di Costacurta, ebbene sì, e gol di Zola. Dopo, mi viene di paragonare il calcio di Maldini al pane e salame. Mi telefona un po’ freddino: cosa volevi dire di preciso? Gli dico che per me è un complimento: semplicità, chiarezza, buon senso. Si rabbonisce: se è così va bene, non volevo che sembrasse una faccenda da osterie. Pensavo che l’equivoco fosse nato per le sue frequentazioni di Rocco e poi di Bearzot e quindi alla difesa di una linea italianista. In quegli anni il verbo dominante era quello di Sacchi e chi non disdegnava l’impiego del libero era oggetto d’antiquariato. Credo che Cesare sentisse quella sua panchina azzurra un parziale indennizzo a Rocco, che nel ‘62 c’era andato molto vicino. In Francia l’Italia fece il suo, né benissimo né malissimo. Uscì, ancora ai rigori, ai quarti con la Francia che avrebbe vinto il titolo. Di Biagio: traversa. L’imitazione di Teocoli lo rese più popolare, con quella chioma dal colore assurdo, ma non gli piaceva. Né gli piacque il modo in cui la federcalcio chiamò Zoff in panchina. Convocò una conferenza- stampa a Viareggio per dire che gli avevano garantito la riconferma. Non era uno che si faceva pestare i piedi, Cesare. Andò a allenare il Paraguay, portato al mondiale 2002 ed eliminato dalla Germania. Fino a pochi mesi fa andava ancora in palestra e faceva il nonno. Un giorno chiesi a Paolo: mi dici un paio di cose che hai imparato da tuo padre? «A essere corretto in campo e fuori e ad ascoltare». Ma che primavera è, con tutti questi grandi alberi che cadono?

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Alberto Cerruti per La Gazzetta dello Sport
Elegante e vincente. In campo, in panchina, nella vita. Cesare Maldini non è stato soltanto «il papà di Paolo», come è stato ricordato ieri mattina sui social, o una felice imitazione di Teo Teocoli che lo ha reso simpaticamente popolare al di fuori del calcio. Cesarone, come lo chiamavano gli amici, è stato prima un grande giocatore e poi un ottimo allenatore, capace di farsi voler bene da tutti, sorridente e disponibile, generoso e mai geloso, capitano di un leggendario Milan e gregario del mitico Bearzot al mondiale 1982, perfetto interprete di mille ruoli, sempre con il suo inimitabile stile.
Maglia numero 2, che a quei tempi era la targa di ogni terzino destro, nel 1955 al suo primo anno al Milan diventa subito campione d’Italia dietro campioni già affermati come Liedholm, Schiaffino e Nordahl. Vince altri tre scudetti, ma la fama e la gloria vera arrivano quando è il numero 5, libero, capitano e leader della difesa del nuovo Milan di Nereo Rocco, triestino come lui. E’ il 22 maggio 1963 e il Milan è la prima squadra italiana che vince la coppa dei Campioni battendo 2-1 il Benfica campione in carica, grazie anche a una sua intuizione. «Cesare fa ti», gli diceva sempre Rocco e allora lui, dopo il gol di Eusebio, cambia le marcature. Trapattoni si sposta su Eusebio, Benitez va su Torres e guarda caso il Milan rimonta e vince. Capace di conquistare i suoi giocatori più con le parole che con la tattica, si rivela uno straordinario scopritore di talenti. Al Parma, in serie C, lancia Ancelotti. Poi, dopo una parentesi al Milan, nel 1980 viene chiamato da Bearzot che lo vuole come suo «vice» al posto di Trevisan. Maldini prima del Mondiale in Spagna corre al fianco degli azzurri sul campo di Alassio, sdrammatizzando con le sue battute i momenti difficili nel ritiro di Pontevedra, punto di riferimento prezioso per il c.t. e per i giocatori. Un’altra esperienza vincente che esalta il suo lato umano, dopo quello tecnico. Un arricchimento che gli consente di diventare il c.t. più vittorioso con la Under 21. Campione d’Europa per tre edizioni consecutive, nel 1992-1994-1996, bravo a valorizzare i ragazzi, da Panucci a Nesta, da Totti a Vieri, da Cannavaro a Inzaghi, da Toldo a Buffon. Più giovane nella testa che nella carta d’identità, a 64 anni non trema quando improvvisamente gli viene affidata la nazionale maggiore, abbandonata da Sacchi una domenica notte appena riceve una chiamata dal Milan. E’ l’inizio di dicembre 1996 e poco più di due mesi dopo l’Italia deve giocare contro l’Inghilterra una difficile gara di qualificazione al Mondiale 1998. Dopo il pomeriggio vittorioso del 1963, ecco il secondo trionfo nel «suo» Wembley. L’Italia, che non aveva mai battuto l’Inghilterra in trasferta in una gara ufficiale, vince 1-0 con un gol di Zola. Ma il vero capolavoro di Maldini, al di là dei tanti successi in campo e in panchina, è la sua splendida e numerosa famiglia, presente anche in quel felice 12 febbraio 1997. Era già passata mezzanotte, quando scoprimmo per caso aprendo una porta in ferro, Maldini che parlava con sua moglie Marisa, suo figlio Paolo capitano alla presenza numero 76 in nazionale, gli altri due figli, le tre figlie e due nipotine. Sembrava un gruppo di tifosi e invece era la famiglia del c.t. Dieci Maldini tutti insieme, quasi una squadra. Una gran bella squadra, sempre unita, che gli è stata vicino fino all’ultimo respiro, nell’ultima notte. Perché si può vincere anche quando si perde. Non una partita, ma un marito, un padre, un nonno, dolce e buono come Cesarone.

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Alberto Costa per il Corriere della Sera

Con Cesare Maldini è un altro pezzetto di un calcio antico che se ne va. Un calcio travolto dallo strapotere dei fatturati e dai soldi della tv. Nei suoi molteplici ruoli – grande calciatore, buon allenatore, padre di un marziano di nome Paolo – Maldini senior aveva mantenuto sempre una semplicità di fondo che gli impediva di volare altro. Esempio: a differenza di molti suoi colleghi passati e presenti non era convinto di avere inventato il calcio. Il suo era un calcio concreto, senza ghirigori. Era il calcio in cui aveva debuttato a Trieste, la sua città natale, il 24 maggio 1953, e in cui poi si era affermato scalando i gradini della storia rossonera.
Eroe rossonero Con il Milan Cesarone mise assieme 412 presenze ufficiali di cui 347 in campionato. Vinse quattro scudetti giocando con campioni come Nordahl, Schiaffino, Altafini, Sani, Rivera e Liedholm. Proprio dal «Barone» svedese raccolse le insegne del comando e la storica foto in bianco e nero che lo ritrae sorridente accanto al paron Nereo Rocco con la fascia di capitano e con la Coppa dei Campioni sollevata al cielo, è un altro must del calcio di casa nostra. Era il 22 maggio 1963 e battendo il Benfica di Eusebio a Wembley, il Milan era appena diventato la prima squadra italiana a vincere la Coppa più sognata d’Europa.
Da calciatore Cesare Maldini, difensore di belle movenze, 14 presenze in Nazionale, chiuse al Toro, una stagione soltanto, prima di passare dall’altra parte della barricata tornando al Milan come vice di Rocco, provando a ballare da solo a Foggia, Terni e Parma (promozione dalla C1 alla B) e scegliendo infine l’approdo azzurro.
Vice di Bearzot In Nazionale fu vice di un altro mito come Bearzot, accanto a lui dal 1980 al 1986. C’era anche Cesarone nel gruppo che ci regalò, inaspettato, il Mundial di Spagna dell’82, quello in cui Pablito Rossi era un ragazzo come noi. E dopo l’esperienza con Bearzot, quella (trionfale) sulla panchina della Under 21: per tre volte consecutive (dal ’92 al ’96) Maldini senior vinse il titolo europeo di categoria fino a quando le dimissioni di Sacchi lo portarono, quasi per forza di inerzia, a pilotare la Nazionale maggiore. Due anni scarsi sui quali il 3 luglio 1998, Mondiale di Francia, calò il sipario in modo traumatico dopo lo 0-0 con i padroni di casa a Saint Denis. Nel cassetto della nostra memoria è rimasto il fotogramma del rigore calciato da Di Biagio sulla traversa: vittoria dei francesi, strada spianata verso il titolo e lui, pantaloni della tuta e maglietta a maniche corte, impietrito davanti alla panchina.
Il senso del dovere portò poi Cesarone ad accettare il ruolo di D.T. (con Tassotti allenatore) quando Berlusconi, nel marzo del 2001, decise di licenziare Zaccheroni in diretta tv. Quella fulminea esperienza fu però caratterizzata da un risultato che fece epoca: venerdì 11 maggio 2001 il Milan di Maldini & Tassotti vinse infatti il derby con un 6-0 dirompente. Fu in pratica l’ultimo suo fuoco d’artificio professionale. Successivamente, da c.t. del Paraguay, si incagliò contro la Germania negli ottavi del Mondiale del 2002.
Cesare Maldini, capitano milanista, è stato ovviamente anche l’iniziatore di una dinasty che ha portato suo figlio Paolo a ripercorrerne il cammino, superandolo.
La dinastia Tante volte Cesarone, nelle lunghe trasferte in giro per il mondo a inseguire partite di pallone, mi aveva raccontato di quando, accompagnando il piccolo Paolo agli allenamenti, percepiva l’ostilità degli altri genitori convinti che quel bambino avesse trovato posto nelle giovanili rossonere soltanto perché suo figlio. Una volta aveva dovuto addirittura trattenere la moglie Marisa che intendeva farsi giustizia a modo suo. Il tempo ovviamente gli aveva restituito la felicità. Un giorno mi confidò: «Finalmente Paolo non è più il figlio di Cesare. Adesso sono io che sono diventato il papà di Paolo». Addio Cesarone, amico di una vita di calcio. Riposa in pace.

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Gigi Garanzini per La Stampa
Rocco era stato per lui come un padre, Bearzot un fratello maggiore. Suo figlio Paolo uno dei più grandi difensori di sempre, e basterebbe questa trilogia a raccontare quanto sia stata fortunata la vita di Cesare Maldini. Ma non si diventava per caso scudiero del Paròn prima e del Vecio poi: e ancor meno per caso si cresce un figlio d’arte aiutandolo a diventare persino più forte.
Cominciamo da lì. Dal signor giocatore e giocatore signore che è stato Cesare Maldini. Dall’eleganza del gesto tecnico, dalla correttezza di comportamento, dal suo modo così naturale, quasi sottinteso di essere leader. È vero, gli scappava ogni tanto quel tocco in più perché pur da libero la palla amava giocarla, non sparacchiarla via come usava in quegli anni di catenaccio: le avevano battezzate, per l’appunto, maldinate, e se in panchina c’era il padre putativo volavano botte e risposte non proprio da educande. Ma poi tutto cominciava a sistemarsi in spogliatoio e finiva in ridere la sera ai tavoli dell’Assassino, dove in coppia a scopone erano praticamente imbattibili, per la disperazione di Nicolò Carosio. E sì che Cesare era astemio, dunque almeno all’apparenza incompatibile col Paròn. Fu invece quella coppia di triestini-doc a levare nel cielo di Wembley la prima Coppa dei Campioni italiana.
Padre di un fuoriclasse
Chiusa la carriera da calciatore, quella da tecnico stentò a decollare. Debuttò sulla panchina del Milan con Rocco direttore tecnico, pioveva quella domenica e il Paròn con palandrana impermeabile, asciugamano sul collo e le sue solite scarpacce sfondate lo squadrò mentre sbucavano dal sottopassaggio. Me manca qualcosa? Domandò Cesare emozionato come un collegiale. No, te ga tropo lo fulminò Nereo, indicandogli le nappine delle scarpe di vernice. L’avventura fu di breve durata. Cesare battè qualche panchina di provincia, scoprì e lanciò a Parma l’allora centravanti Ancelotti, sinché Federico Sordillo, ex presidente del Milan e neo-presidente Figc, non lo propose a Bearzot come vice.
Il Vecio, detto tra noi, per qualche tempo si limitò ad annusarlo perché la sponsorizzazione presidenziale l’aveva messo sul chi vive. Poi messo a fuoco l’uomo, anzi il galantuomo, gli consegnò le doppie chiavi dello spogliatoio e ci fu anche lo zampino di Maldini, per esempio della perfetta preparazione fisica nel ritiro di Vigo, nel trionfo mondiale di Madrid.
Grande con i giovani
Lì cominciò una lunga carriera federale. Culminata nei tre titoli europei consecutivi alla guida dell’Under 21 e conclusa al Mondiale di Francia dalla traversa di Di Biagio sul rigore decisivo. Era il quarto di finale, a Saint Denis, e i francesi padroni di casa che poi schiantarono in finale il Brasile rischiarono l’osso del collo su una fantastica volée di Baggio che avrebbe meritato di essere il golden-gol. In campo quel giorno, come in tante altre occasioni, c’era suo figlio Paolo, oppure Pa-Paolino nella versione di Teocoli. Ecco, quella il buon Cesarone l’ha patita. L’imitazione, intendo, perché era perfetta al punto da faticare a distinguere l’originale della copia. Ritrovarsi sbertucciato da un giorno all’altro e per di più da un vecchio amico com’era Teo non gli piacque, per usare un eufemismo. Torniamo a Paolino. Suo padre, Cesare, non ci mise molto a capire che tra i suoi tanti figli c’era una pepita d’oro. Ma dopo averlo segnalato al settore giovanile del Milan, si ritirò in buon ordine. E poiché durava fatica a non seguirlo da vicino, a non misurarne i progressi, si sforzava di farlo di nascosto, di mimetizzarsi per non creare problemi né a lui, né agli allenatori, né alla società. Un po’ come il papà della Giorgi, la tennista, non so se avete presente il genere.
Quella volta con Corso
Addio Cesare. È stato un privilegio conoscerti. E non avertene a male se per stoppare il magone racconto di quella volta sul tram con il tuo amico Mariolino Corso. Ci eravamo saliti in largo Augusto, incrociandoci per caso, ed eravamo seduti uno di fronte all’altro accanto al finestrino. Fermi al semaforo di via Mazzini, vediamo un energumeno che salta e comincia a prendere il vetro a manate per richiamare l’attenzione. Eri tu, e il tuo fumetto diceva: pre-prendé el taxi, barboni.

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Oliviero Beha oer il Fatto Quotidiano
Se con Johan Cruyff se ne è appena andato un genio del calcio che ne ha fatto la storia, con Cesare (leggi per tutti “Cesarone”) Maldini, scomparso nella notte tra sabato e domenica a 84 anni, è un pezzo di presepe del calcio italiano intergenerazionale, dagli anni 60 in poi, che si è staccato. È stato un eccellente difensore del Milan Campione d’Europa 1963, un discreto “secondo” di Bearzot nella famosa (famigerata?) “Spagna ‘82”, un tecnico vincente con l’Under 21 per tre edizioni di Europei, un C.T. limitato della Nazionale maggiore nei Mondiali del ’98, in Francia, vinti da Zidane e soci che avevano eliminato ai rigori ai quarti l’Italia che doveva essere di Baggio e fu invece di Del Piero.
Ho negli occhi da stadio e da tv lo stile del difensore centrale (allora il “libero”), che usciva con sicurezza dalle mischie quando non lo faceva con sicumera, combinando le storiche “maldinate”. Ho nelle orecchie i discorsi con Nereo Rocco, a Milanello, nelle ultime stagioni al Milan del paròn, che diceva di Cesare “era un signore dell’area di rigore, ma anche un mona, mi faceva disperare”. E quelli con Lelio Luttazzi, triestino come loro, nella sua casa di Ceri nel finale di una vita rovinata da un arresto e una detenzione ingiusti, che pensando anche a Rocco aveva escogitato lo scherzo canoro de “El can de Trieste”: faccenda da bevitori, per un Cesarone invece astemio, come il fuoriclasse superiore al padre che è stato il figlio Paolo, il miglior difensore italiano degli ultimi trent’anni. Entrambi hanno fatto la storia del Milan, e molto si doleva lo scomparso genitore del fatto che la berlusconeide ingallianata delle stagioni recenti non avesse tenuto in alcun conto la disponibilità milanista fino al midollo di Paolo. Sembravano perfetti, padre e figlio, nel mix campo e fuori campo, e di sicuro l’aspetto incontestabile di “Cesarone” era la filigrana di moralità e rispetto di cui era fatto. A bandiere abbrunate, grande nostalgia di quei personaggi e di quel calcio, con tutte le sue storture iniziali, con molto meno denaro e senza business televisivo, con storie avventurose di successo e perdizione, foto sbiadite di un Paese con tutt’altra personalità. Si correva di meno, erano meno atleti, ma più giocolieri, l’epica la faceva da padrona, l’alone del mito non aveva bisogno d’essere pompato. Con Cesare Maldini è una tessera di quel mosaico che si scolla, ancora più importante per la continuità di stirpe garantita poi “in un altro calcio” dal figlio Paolo cresciuto secondo i paradigmi del padre.
Dopo un’altra brutta sconfitta del solito Milan né carne né pesce degli ultimi tre anni, Sinisa Mihajlovic ieri in tv ha detto che “questa generazione di calciatori ha pochissima personalità”, per spiegare una mollezza temperamentale che finisce per farti scomparire in campo nelle difficoltà. La sua generazione è già quella di Paolo, ma la nostalgia qui è per quella di Cesare…
Nel frattempo si schiariscono i contorni del campionato, perché la pragmaticità inestetica della Juve fa punti mentre il nervosismo a tutto campo di Higuain – e Sarri – li smarrisce per strada. Chissà quanto guadagnerà chi ha comunque scommesso sulla Juve campione per la quinta volta consecutiva come nei primi anni 30 nell’autunno scorso, quando era partita da zona retrocessione: in un calcio (e uno sport) governato dal business del betting, con pubblicità ovunque corredata dall’avvertenza a presa rapida (“può generare dipendenza”…), sembrano queste le considerazioni decisive che di sicuro a Maldini padre poco interesserebbero. Il tutto mentre continua il miracolo Spalletti, che se richiamato due mesi prima sarebbe vicino allo scudetto, il quale ha intronato Florenzi in luogo di Totti e De Rossi come “re di Roma”, così come continua la recessione della Fiorentina: chissà se adesso i dirigenti avranno voglia di passerelle televisive come un girone fa, per spiegare perché il Leicester di Ranieri (minuscolo bacino inglese) sta vincendo la Premier e la squadra dei Della Valle bros ormai va a gambero che è una bellezza.

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Oscar Eleni per il Giornale

Brutto svegliarsi sentendo la notizia che ci ha lasciato Cesare Maldini, il sacerdote dei misteri eleusini del calcio, l’unico che poteva spiegare le cose sacre dello sport anche ad un bambino. Lo fece tante volte e a dieci anni se conosci un uomo del genere resti affascinato per sempre. Gli altri perdevano la ragione quando c’era la battaglia, ma se guardavano alle loro spalle vedevano la calma di quel Ierofante triestino e ritrovavano la strada. Lo fecero a Wembley, la prima coppa dei Campioni di una squadra italiana, il suo Milan, suo e di Rocco, quando il Benfica andò in vantaggio. Fu trionfo. Che giornata, che invidia per quelli che avevano potuto andare a Wembley, ma eri sicuro che al ritorno non sarebbero stati altri a spiegarti cosa era accaduto sul quel nobile tappeto inglese. Ci avrebbe pensato Maldini Cesare da Trieste con il suo globo d’oro appeso al collo.
Lo abbiamo sognato e immaginato quasi sempre così. Lo abbiamo tanto amato davvero anche quando le maldinate facevano tremare le tribune, urlare gli infedeli. Sì, qualche volta ha esagerato, ma cercando sempre qualcosa che fosse stile, un marchio. Per otto anni abbiamo cercato Maldini sull’erba di ogni stadio. Non fu amore a prima vista. Non poteva esserlo perché quando giocava nella Triestina aveva cercato troppe volte la maglia di Gunnar Nordahl. Non era finita bene. Troppa saliva, troppo sudore. Come poteva cambiare la storia della difesa rossonera uno del genere? Lo avrebbero perdonato? Certo che lo hanno perdonato perché divenne aristogatto dopo essere stato mulo.
Artista che ha reinventato se stesso, il ruolo di libero, e quando la fascia di capitano rossonero passò a suo figlio Paolo non eravamo sicuri che fosse davvero andato via. Meravigliosi i suoi silenzi, stupendi quei balbettii per ribellarsi ai troppo saccenti, ridendo più degli altri quando il suo amico Teo Teocoli ne faceva la parodia, anche se spesso lo minacciava fermandosi al momento giusto se di mezzo c’era Paolino pronto a correre sulla fascia.
Non ci ha stupito vedere affiancato il suo nome a quello di Cruijff sulle tribune di Bergamo dove pascolava un Milan troppo diverso dal suo. Padrone dello spogliatoio, signore del campo. Viandante per un giorno nella Milano che aveva già accolto tanti triestini famosi cominciando da Cesare Rubini e Gianfranco Pieri. Poi padrone della signoria nel ristorante vicino a Piazza Missori, l’Assassino, dove il suo tavolo accoglieva tutti, a patto che non gli facessero cambiare la fede verso il filetto. Che si divertissero su altri tavoli anche se come dice Rivera lui e Rocco erano davvero due splendidi e simpatici guasconi. Fuori dal campo, si capisce. Dentro la legge era un’altra.
Ci siamo goduti il Maldini maturo quando è diventato allenatore, lo abbiamo scelto come angelo protettore negli anni in cui taceva pur avendo tante cose da dire, accettando anche il cono d’ombra della non riconoscenza come dopo il mondiale da cui fu eliminato ai rigori contro la Francia poi diventata campione. Il vero Maldini, campo e panchina, lo abbiamo vissuto nell’anno meravigliao di Spagna 1982 quando era l’assistente di Bearzot. Il silenzio stampa portava soltanto Dino Zoff davanti agli inviati a fine allenamento. Cesare restava con chi doveva sistemare ancora il piede, esercitarsi. Per lui abbiamo persino tifato Paraguay, grazie a Cesare dire scuola Milan aveva, ed ha ancora oggi, un senso.

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Alessandra Bocci per La Gazzetta dello Sport
A Servola le donne facevano il pane. Lo facevano dappertutto, ma quello era un pane speciale fatto da artigiane speciali e Cesare Maldini quel pane lì non lo ha mai più trovato neppure a Milano, la sua seconda casa. A parte questo, a Milano ha trovato tutto quello che desiderava, da quando tirava su due porte con quattro paletti in un campo di basket al ricreatorio di Servola, quartiere di Trieste, per giocare a pallone con gli amici. Dopo sono arrivate la Triestina, Rocco, il Milan, le maldinate. Sono arrivati Marisa, la moglie, e poi sei figli e tanti nipoti. Ci sono stati gli scudetti e le coppe, la Nazionale, l’Under 21, il Paraguay. C’è stato il successo, tanto successo e anche una piccola liberazione, quando Cesare è diventato «il padre di Paolo», mentre in principio Paolo era «il figlio di Cesare». C’è stato un amico che lo imitava, e un altro amico annichilito sulla panchina dell’Inter mentre il Milan di Cesare lo colpiva ripetutamente (6-0, un derby indimenticabile per i tifosi rossoneri). C’è stato, per tutta la vita, un concetto di calcio pratico, lievitato forse grazie a quel pane mangiato da ragazzo.
Cesare Maldini era un uomo concreto e gentile che non si stancava di pensare al pallone. Ha cominciato a Trieste e ha smesso in Paraguay. Un periplo lunghissimo, approdi diversi. Da giocatore, oltre al Milan e alla Triestina, anche il Torino («ci sono andato perché c’era Rocco ma non mi trovavo bene, ero abituato a Milano»); da allenatore anche il Foggia, la Ternana e il Parma. Cesare accettò la panchina del Paraguay perché tanto il calcio è uguale dappertutto. «A parte il fatto che i miei paraguaiani masticano sempre il mate, non vedo grosse differenze». Aveva settant’anni.
Una vita in uno scatto. Anche Cesare, dovendo scegliere, nominava la foto di Wembley, lui con la coppa dei Campioni fra le mani, Rivera che lo guardava rapito. Cesare aveva 31 anni, era passato giovane dalla Triestina al Milan e con i rossoneri aveva già vinto quattro scudetti. Aveva sfiorato la coppa nel 1958 e ora ecco che se la ritrovava fra le mani: era il 1963, il difensore Cesare era il capitano del Milan. Tanti anni dopo, suo figlio avrebbe alzato la stessa coppa, per la stessa squadra e con la stessa fascia al braccio. Ma allora Cesare era diventato già da parecchio tempo il padre di Paolo.
Eppure c’era molto altro nel suo curriculum. C’erano le prime esperienze da allenatore al Milan, con Rocco che lo volle con sé anche in panchina, e soprattutto c’era la divisa della Nazionale, la sua seconda pelle sportiva dopo quella rossonera. Da vice di Bearzot Maldini vinse il Mondiale nel 1982, da allenatore della Under 21 ha conquistato tre titoli consecutivi (nel 1992, ‘94, ‘96), record difficilmente eguagliabile. Ancora da allenatore ha guidato l’Italia degli adulti al Mondiale 1998, fino alla sconfitta ai calci di rigore contro la Francia. Per i suoi giocatori era un padre, dicono tanti adesso. Quando tornò sulla panchina del Milan all’inizio del ventunesimo secolo, cambiò qualcosa e raddrizzò in parte la stagione. «Il Milan? Dieci giocatori più Serginho», riassumeva per chi chiedeva di sistemi di gioco e filosofie. Non amava le discussioni cervellotiche e per le battute a volte si ispirava a Rocco, quello che gli diceva, vai in campo e fai tu. Quello che quando si spazientiva nei primi tempi di Milan trovava quel ragazzo elegante con gli occhi chiari che gli diceva, «stia tranquillo, signor Rocco, la squadra è forte e qui si vince». A un giornalista del Piccolo che una volta gli chiese «ma lo chiamava proprio signor Rocco?», Cesare rispose: «Come si usa a Trieste. Io sono stato educato così: a chi è maggiore d’età bisogna sempre portare rispetto».
Cesare ha lanciato tanti giovani. Le parole a volte sdrucciolavano via, ma il pensiero calcistico era sempre chiaro ed essenziale, per questo forse funzionava bene con i ragazzi. Funzionò benissimo una sera di maggio del 2001 al Milan, verso la fine di una stagione amara. Cesare era a caccia della zona Europa e si buttò sul classico, un 4-4-2 e pochi svolazzi. Serginho creò, Comandini visse la più bella partita della sua vita (due gol), fecero festa anche Giunti e Shevchenko. L’Inter di Tardelli andò a casa con il mal di testa e il vecchio Cesare si prese la rivincita su chi da mesi sorrideva all’idea della leggenda di Wembley mandata a governare la squadra con il suo calcio antico. E’ un’altra istantanea per l’album dominato dalla foto di Wembley.
Cesare sarà sempre l’uomo che ha ereditato la fascia e l’eleganza da Liedholm e la praticità da Nereo Rocco. «Quando l’ho conosciuto avevo 17 anni e lui era già un allenatore di serie A. E’ stato il mio incontro più importante in campo sportivo». Sarà l’allenatore imitato da Teocoli che ha accettato la caricatura senza essere permaloso. Sarà l’uomo che ha creato una grande famiglia e una dinastia calcistica. Sarà il patriarca che ancora Paolo raggiungeva a pranzo dopo la partita di calcetto. «Era un uomo divertente», ha detto Gianni Rivera. «Uno che non metteva in piazza i sentimenti», ha ricordato Dino Zoff. Il calcio gli ha dato tanti successi ma anche tanto stress. «Non farei mai l’allenatore, ho visto quello che ha sofferto mio padre», diceva Paolo. Eppure di Maldini Cesare alla fine resta solo il lato chiaro, quello della gentilezza e del fair play. Scriveva Umberto Saba: «Trieste ha una sua scontrosa grazia». Col pane di Servola, Cesare ha assorbito anche quella.