la Repubblica, 2 aprile 2016
Marco D’Amore, oltre Gomorra
Arriva all’appuntamento con un vassoio di dolci. «Facciamo ‘sto peccato di gola?». Scarta il pacchetto, rapido sguardo da esperto. «Buone saranno buone, ma con tutto il rispetto, niente a che vedere con le paste che facciamo a Napoli». Marco D’Amore, Ciro l’Immortale di Gomorra, sorriso aperto e sguardo fiero, è nato a Caserta «da una famiglia totalmente napoletana», cresciuto «grazie al teatro» a Napoli e non ha mai tagliato le radici. «Sono orgogliosamente meridionale, viaggio per il mondo, vado su e giù per l’Italia ma continuo ad abitare a Caserta. Non potrei mai vivere da un’altra parte. Sono un uomo del Sud, onorato di esserlo. Al di là dei luoghi comuni credo che la mia terra potrà rinascere solo se non l’abbandoniamo. Da zero a diciotto anni ti viene consegnata gratis una tradizione culturale incredibile: cresci con il teatro di Eduardo, i film di Totò, la musica – da Murolo a Pino Daniele – per non parlare del patrimonio artistico. Certe rappresentazioni segnano il carattere e lo condizionano, se guardi in ogni famiglia riconosci i personaggi delle commedie».
Nella sua, un ruolo fondamentale l’ha avuto nonno Ciro, «che guarda caso», racconta divertito, «essendo un impiegato della Sip faceva l’attore ma a livelli alti, era in compagnia con Nino Taranto, Francesco Rosi, Nanni Loy. Vinse la Corrida radiofonica, girò un sacco di sceneggiati in Rai».
Continua il racconto: «Poi c’è stato l’incontro che mi ha cambiato la vita, come tanti ragazzi frequentavo compagnie dialettali e mi ha visto Toni Servillo. Lui e Andrea Renzi stavano mettendo in scena una riduzione di Pinocchio. Mi presero: due anni di tournée, 150 repliche. Ho capito cosa volevo fare nella vita».
Da Una vita tranquilla di Claudio Cupellini sempre al fianco di Servillo a Un posto sicuro di Francesco Ghiaccio sulla tragedia dell’amianto a Casale Monferrato, film che ha anche prodotto, al successo di
Gomorra (dal 10 maggio su Sky Atlantic andrà in onda la seconda serie), D’Amore non ha cambiato la vita. «Abito a Caserta che è la città dove ho studiato, ho frequentato lo stesso liceo di Roberto Saviano, che era un po’ più grande di me e all’epoca aveva i capelli lunghi, lo chiamavamo l’Indiano. Il destino è incredibile, ci siamo incontrati di nuovo per Gomorra. Abbiamo girato a Scampia, rappresentato l’inferno in terra, la violenza della camorra. Il Sud è bellezza e degrado». Riprende fiato: «Caserta ha una dimensione di provincia che mi protegge e mi fa sentire libero, mi restituisce un sentimento di normalità di cui ho bisogno. La popolarità è bella ma anche faticosa, la gente è spudorata e i miei fratelli mi prendono in giro. Ho fatto le foto con tutto il quartiere ma vado a fare la spesa tranquillo, mi conoscono da quando sono ragazzino. Le radici sono fondamentali. Come diceva Terzani: “Non guardare l’albero perché sotto terra ce n’è un altro, più profondo”».
Se Napoli è un teatro a cielo aperto, come dicono artisti attori e registi, D’Amore ha approfondito il mestiere a Milano. «Quando ho deciso che avrei recitato già durante la tournée di Pinocchio programmavo il mio provino alla Scuola Paolo Grassi. Sono andato a Milano e mi hanno preso. Mi dividevo tra scuola e lavoro, ho fatto il cameriere, il baby sitter, il dog sitter, il lavapiatti, con un amico facevamo numeri da strada, andavamo avanti con le clownerie. Tutte esperienze che mi hanno fatto capire che questo è un mestiere in cui ti devi sacrificare. Mi mancava casa ma sono molto grato a Milano perché mi ha “europeizzato”, offre un altro stile di vita. Ma per me Napoli resta una bussola, è il mio sud e il mio nord, è una città che offre tanti spunti per il mio mestiere, li prendo dai comportamenti della gente, dai rumori, dal caos, non posso stare lontano, mi nutre, mi serve, è una capitale del sud e una regione dell’anima. Il Sud del mondo è connotato in vari posti, c’è un pezzo di Napoli ovunque, anche in America. È uno state of mind, quella roba lì ti fa soffrire quando non ce l’hai. Ti prende l’appocundria. Renata Molinari, carissima insegnante alla scuola Grassi, che è anche drammaturga, un giorno mi disse davanti a tutta la classe: “Quando la smetterai di essere napoletano?”. Mai. In ogni cosa che facevo era come se portassi il gonfalone».
Che vuol dire? «Difendo sempre il lavoro dei napoletani – spiega sorridendo Marco D’Amore – perché conosco le condizioni in cui cresce un progetto a Napoli, conosco la fatica». La sua Napoli da bambino ha il sapore del pomodoro messo a bollire dalla mattina. «Facevamo il sugo, riempivamo bottiglie su bottiglie. Sono cresciuto con mia nonna e mia zia, Pina e Maria, nonna aveva una cucina di 60 metri quadri, era il suo mondo, quando pensava di essere sola a casa cantava. Nel palazzo ci conoscevamo tutti, era un piccolo paese, c’era un sentimento di comunanza». Il filo che lo lega al suo Sud è fatto di tenerezza, orgoglio e rabbia perché vince l’incuria. «L’indifferenza uccide. Caserta ha tre siti patrimonio dell’Unesco, lo sa che le antiche seterie di San Leucio producevano le tovaglie per le reggia di Caserta? Niente viene valorizzato, c’è un senso di abbandono che fa male – continua D’Amore – nelle città del Sud ci sono interi quartieri dove non c’è un cinema, un teatro, un esercizio commerciale: facendo vivere nella bruttezza la gente, le persone diventano lo specchio del luogo in cui vivono. Ma sono grato a Napoli anche per il male, è onesta pure nella melma, ti fa vedere il nemico e non ti inganna, non ti fa vedere che la vita è bella. Lo capisci vivendola che c’è bisogno di un inferno in ogni luogo ma Napoli è l’inferno d’Italia. Uno scampolo di notizia diventa l’ennesima bomba. Va bene, c’è stata la rapina a Insigne al Vomero, ma hanno svaligiato la casa a Pogba a Torino: cosa fa più notizia?».
Le radici non le ha mai tagliate e non le taglierà: «Secondo me bisogna incentivare a rimanere, se ce ne andiamo tutti rimane il deserto, facciamo il gioco di chi non vuole che il Sud si riscatti. Conosco tanti professionisti giovani che stanno all’estero e soffrono dello stesso male, non poter esercitare il proprio talento a favore di questa causa».
Lui ci prova recitando, col teatro e il cinema. A giorni tornerà sul set al fianco di Claudio Santamaria e Sara Serraiocco per girare Brutti e cattivi, debutto alla regia di Cosimo Gomez, «storia che racconta come, al di là dell’apparenza, in fondo siamo tutti brutti e cattivi. Ho sempre pensato al mestiere dell’attore come a un lavoro collettivo, l’impegno di un gruppo di persone indipendenti. Vorrei essere allo stesso tempo dietro la macchina da presa e davanti. Non a caso il film sull’eternit, Un posto sicuro, che continuo a portare in giro per l’Italia, l’ho voluto anche come produttore e l’ho scritto con Francesco Ghiaccio: siamo due facce dello stessa medaglia. Mi piacerebbe fare da collante e mettere insieme gli artisti, incoraggiare i giovani. A giugno compio 35 anni: se non mi muovo adesso, quando dovrei farlo?».