la Repubblica, 2 aprile 2016
Una volta salvata Palmira, tra le sue pietre ritroverà pace l’anima di Khaled al Asaad, l’archeologo siriano morto difendendo la memoria dei secoli
Si cerca di capire che cosa rimane di Palmira, che cosa può essere ricostruito. Si confrontano fotografie e filmati, si consultano esperti. Forse non è stata spesa la stessa pena, la stessa angoscia, per le devastazioni umane dell’avanzata jihadista, e in generale per le centinaia di migliaia di vittime delle guerre mediorientali. E forse è ingiusto che sia così. Il problema è che le cose ci sopravvivono. Ci sopravvivono perfino le cianfrusaglie, brutti soprammobili appartenuti agli avi, mediocri mobili dei quali esitiamo a liberarci perché, appunto, scampati a precedenti vite e quasi sicuramente anche alla nostra. Basta la compresenza di tre o quattro generazioni per caricare un oggetto di una sacralità non sempre meritata. Figuriamoci il profilo di una città millenaria, i suoi portali, i suoi templi, le sue pietre: quando sono cento le generazioni che ogni pietra contiene. Anche per questo ogni ricostruzione, in ogni dopoguerra, è così importante e coinvolgente: ricuce ( o prova a farlo) la continuità tra generazioni, lacerata dalle guerre. Una volta salvata Palmira, tra le sue pietre ritroverà pace l’anima di Khaled al Asaad, l’archeologo siriano morto difendendo la memoria dei secoli.