Corriere della Sera, 2 aprile 2016
Una guerra americana nella Libia dei pirati
Una figura esemplare in campo politico è stato Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, che fu anche scienziato e architetto. Mi ha meravigliato leggere che, malgrado gli Usa si dichiarassero non interventisti, nel 1805 bombardarono Tripoli. In effetti combattevano contro i pirati che minacciavano i traffici commerciali nel Mediterraneo. Il pascià di Tripoli pretendeva un consistente tributo per liberare alcune navi americane che erano state aggredite e si rifiutavano di pagare il pedaggio. Allora la Libia faceva parte dell’impero ottomano; il sultano Selim III ignorava la questione?
Antonio Fadda
antonio.fadda@virgilio.it
Caro Fadda,
I pirati barbareschi che aggredivano le navi europee e americane nel Mediterranee, non si limitavano a saccheggiarne il carico. Catturavano l’equipaggio e i passeggeri, trasportavano i malcapitati nelle prigioni di Tangeri, Algeri, Tunisi e Tripoli, ricattavano i loro governi sino al pagamento del riscatto (spesso parecchi anni dopo) e restituivano ai loro Paesi esseri umani fisicamente e moralmente distrutti dalla prigionia. L’attività dei privati era una delle maggiori fonti di denaro per il bilancio dei signori locali (pascià, bey, dey) che governavano quelle terre. Thomas Jefferson conosceva bene le imprese dei pirati. Negli anni della sua ambasciata a Parigi, dal 1785 al 1789, aveva seguito con apprensione le vicende di due velieri americani che erano stati catturati al largo delle coste portoghesi e portati ad Algeri con il loro carico umano.
La minaccia non incombeva soltanto sulle navi degli Stati Uniti. Tutti i mercantili in rotta per il Mediterraneo correvano gli stessi rischi. Ma Francia e Inghilterra compravano la loro sicurezza con il pagamento di un tributo. Fino a qualche anno prima, quando inalberavano la bandiera britannica, le navi delle colonie americane potevano contare sulla protezione della flotta di Sua Maestà. Ma la bandiera di un giovane Stato non dava alcuna garanzia. Gli americani avrebbero potuto stipulare polizze d’assicurazione, ma i prezzi erano alle stelle e il Tesoro degli Stati Uniti non poteva permetterselo.
Jefferson pensava che il pagamento del tributo fosse una prassi umiliante e suggeriva il ricorso alla forza. Ma gli Stati Uniti erano impreparati a una guerra marittima e il Congresso era contrario, secondo la raccomandazione di George Washington nel giorno in cui lasciò la Casa Bianca, a qualsiasi coinvolgimento straniero. Vi fu un momento in cui il Congresso decise infine di ricorrere alla umiliante prassi del tributo e del riscatto. Ma il numero degli incidenti continuò ad aumentare e Jefferson, non appena divenne segretario di Stato, dedicò una buona parte del suo tempo a promuovere la costruzione di una flotta. Il passo decisivo fu compiuto quando fu eletto alla presidenza degli Stati Uniti nel 1801. Il pascià di Tripoli chiese un nuovo pagamento e il presidente rispose con l’invio di una flotta. Vi furono fasi alterne e i pirati si batterono tenacemente, ma una azione fortunata dei marines e il blocco americano delle coste finì per dare agli Stati Uniti la vittoria. La guerra finì quando gli americani occuparono Derna, la città che è stata recentemente, per qualche mese, capitale dell’Isis. Il trattato di pace fu firmato nel 1805. Su queste vicende, caro Fadda, esiste un libro di Brian Kilmeade e Don Yaeger apparso nel 2015: Thomas Jefferson and the Tripoli pirates. The forgotten war that changed American History, Thomas Jefferson e i pirati di Tripoli. La guerra dimenticata che ha cambiato la storia americana.
I quattro Paesi dei pirati barbareschi erano, come lei ricorda, possedimenti turchi. Ma l’Impero ottomano era un grande Stato feudale in cui le province più lontane erano baronie che godevano di larga autonomia ed erano implicitamente incoraggiate a sopravvivere con i propri mezzi.