Corriere della Sera, 2 aprile 2016
Viaggio nella middle cass dipinta da Hopper
Interni domestici o spazi aperti luminosi, pochissimi soggetti. Un po’ della Parigi di inizio ’900 sostituita dalla quiete quasi annoiata della quotidianità americana. E su tutto scende il silenzio. Edward Hopper, il pittore delle solitudini (come ammette lo stesso curatore Luca Beatrice), è arrivato anche a Bologna, a Palazzo Fava, in una grande mostra e vi rimarrà fino al 24 luglio.
Sei sezioni per scoprire attraverso dipinti, acquerelli e disegni un artista taciturno e lontano dalla ribalta artistica ripercorrendone la carriera, dall’apprendistato, giovanissimo, in Europa alle immagini classiche e più conosciute passando per gli anni 30, 40 e 50, quelli che potrebbero far tuffare il pubblico nella middle class Usa di «Revolutionary Road». Hopper infatti è il pittore che da outsider ha dato inizio alla pittura americana. «Contestualmente con lui inizia un capovolgimento dei valori propri del Nuovo Continente, che valorizzava l’uomo solo in misura del suo successo e delle sue capacità, ignorando il suo mondo interiore, i desideri più autentici e l’idea di felicità. Nelle sue tele, Hopper mette in discussione il sogno americano: ma nel rivelare la disillusione, indica la strada per una rinascita, per la conquista di un’esistenza più consapevole», è il pensiero che accomuna Fabio Roversi Monaco, presidente di Genus Bononiae, e Leone Sibani, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna.
È grazie infatti a queste due istituzioni, assieme ad Arthemisia Group, Comune di Bologna e al Whitney Museum di New York, che l’allestimento è stato reso possibile. Nella prima sala, quella di Les pont des Arts, vediamo un Hopper giovanissimo allievo dell’Impressionismo, «che guarda in tre direzioni, quella della luce; quella della pittura en plein air, come dimostrano certi angoli da lui dipinti; e quella di Degas, a cui Hopper fa riferimento per le scene d’interno degli anni ’10», sottolinea Beatrice, che ha curato l’esposizione con Barbara Haskel del Whitney Museum, lo scrigno a cui la vedova del pittore donò nel 1968 tutti i suoi artefatti. L’artista di New York era un grande disegnatore, viaggiava e con la sua affezionata matita Conté abbozzava futuri capolavori. A Palazzo Fava se ne troveranno molti, assieme agli altri dipinti realizzati di ritorno dal soggiorno europeo, dove i bistrot e i quai vengono sostituiti da grattacieli e uffici.
Ma sicuramente l’opera più affascinante, anche per la storia che reca con sé, è Soir Bleu : sette soggetti tra cui un clown e una donna dal trucco esagerato, fermati dal pennello a un bar. Insolitamente affollato per un quadro di Hopper: «È il più grande e particolare, del 1914 – spiega il curatore – in esso si vede tutto il gusto teatrale di cui si era imbevuto il pittore nel Vecchio Continente, ma riportò un clamoroso insuccesso e rimase arrotolato e nascosto fino alla morte dell’artista». Second Story Sunlight è invece quello più rivelatore: «Due donne assorte fuori da questa casa hitchcockiana, sono l’elaborazione della moglie Josephine, che Hopper usava come modella, per rappresentare le due età della vita, anche se mancherebbe la terza, quella dell’infanzia», osserva Beatrice.
E Josephine (anche lei pittrice, ma mai troppo incoraggiata dal consorte) si prestò altre volte per ispirare i lavori del marito. Una sera di San Valentino Hopper si recò a vedere il Burlesque da solo. Al ritorno chiese a Josephine di posare per lui. «La donna, ultrasessantenne, fu trasfigurata in una ballerina più giovane per “Girlie show”, che a Bologna vedremo in uno studio con gessetto». «Un’altra donna, questa volta nera, con un vestito rosso e il cappello, si fa ammiccante in “South Carolina Morning”: il dettaglio della figura si sposa con la sintesi estrema adottata nel paesaggio: cielo, terra e due diagonali». Tradizionale senza essere tradizionalista, lo sguardo voyeuristico di Hopper e la sua trattazione di interni verranno imitati da letteratura e cinema per catturare gli stereotipi della società americana.