Corriere della Sera, 2 aprile 2016
Lo smarrimento di Hopper in mostra a Bologna
Il 15 maggio 1967 Edward Hopper moriva a Manhattan; tre mesi dopo, in Belgio, anche René Magritte concludeva la sua vita. In apparenza nulla accomuna il pittore realista al collega surrealista, eppure sia l’uno che l’altro sono i creatori di alcune delle immagini più popolari del Novecento, assurte a icone rappresentative della modernità.
Un denominatore comune deve dunque esserci e la pista porta a cercare in direzione di quell’ineffabile equilibrio raggiunto da entrambi fra assoluta normalità ed enigma. Un modo peculiare di descrivere la realtà e insieme nasconderla così che l’essenza della modernità potrebbe definirsi come un significato esistenziale che sfugge sempre, nonostante il disvelamento della realtà più piccola e invisibile ottenuto dai progressi della scienza.
Proprio in quel margine di mistero, la modernità ha nutrito un sentimento di ansia e di paura cresciuto assieme all’urbanizzazione, all’industrializzazione e al sistema capitalistico. Un’insicurezza per la propria esistenza sempre minacciata da nuovi fattori invisibili, fuori controllo, che in occasione delle cicliche crisi finanziarie si manifesta nell’individuazione di nemici esterni: comunismo, terrorismo, guerra fredda, nucleare, immigrati, profughi e perfino extraterrestri. É una condizione della modernità liquida, che appartiene all’America quanto all’Europa tanto che sia Nighthawks di Hopper (il bar notturno con gli avventori, solitari falchi della notte, appoggiati al bancone) che Le fils de l’Homme di Magritte (l’anonimo uomo con la bombetta e il viso occultato da una mela verde) la rappresentano in maniera universale. Ecco perché Hopper non si riteneva un pittore realista e ancor meno americano: «Non ho mai cercato di rappresentare la scena americana come hanno fatto Thomas Benton, John S. Curry e i pittori del Midwest. Io ho sempre voluto fare solo me stesso». L’America che sta dietro i quadri di Hopper è appena uscita dalla condizione rurale e isolazionista per lanciarsi in una forsennata crescita economica. Gli anni Novanta dell’Ottocento, quelli dell’adolescenza di Edward, sono uno spartiacque nella storia americana. I grattacieli salgono; i carri frigoriferi trasportano le derrate alimentari da una parte all’altra del Paese; i treni transcontinentali smistano ferro e carbone dalle miniere alle fabbriche; le metropolitane velocizzano i tempi produttivi dei lavoratori. La «Gilded Age» capitalista e colonialista criticata da Mark Twain genera un nuovo tipo umano: il «robber baron», il barone ladrone, ossia i super miliardari come Carnegie, Morgan, Rockefeller, creando i primi macro squilibri di una società che va verso una crescente alienazione. Quando Hopper nasce, la prima Depressione economica è passata da un decennio e la nuova Grande Depressione gli segnerà la vita.
Taciturno, introverso, ciclicamente depresso, «un cencio senza consapevolezza» (come lo definì la moglie, sadicamente vessata) praticamente recluso fra l’appartamento di Manhattan e la casa a Cape Cod, senza luce elettrica e acqua corrente, Hopper è solo apparentemente il cronista della classe media urbana americana, di uffici e appartamenti dove la vita sembra di passaggio, della mediocrità di certe tavole calde e sale cinematografiche dove trovava rifugio quando cadeva in depressione per l’incapacità di dipingere; delle pompe di benzina perse in anonime strade di campagna, di fari a guardia di una natura abbandonata, della solitudine delle stazioni ferroviarie, dei motel, di cottage di legno. La sua non è una cronaca della realtà, ma dello smarrimento esistenziale di una società subentrata alla comunità e al suo precedente senso identitario. In questa nuova aggregazione precaria si vive estranei l’uno all’altro, senza radici, in continuo movimento nel Paese, cambiando e abbandonando affetti, case e posti di lavoro. All’apparenza, tutto sembra più facile e felice.
All’apparenza, appunto. Perché Hopper, come Magritte, è un saboteur tranquille, uno che insinua dubbi sul reale attraverso la rappresentazione stessa del reale.