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 2016  aprile 02 Sabato calendario

In morte di Hans-Dietrich Genscher

Danilo Taino per il Corriere della Sera
In Occidente, negli anni della Guerra fredda si poteva essere guerrieri o mediatori. In Germania, prima linea di fronte al blocco comunista, si poteva essere solo mediatori… con diverse gradazioni. Hans-Dietrich Genscher, morto giovedì a 89 anni, lo fu nel modo più dinamico, un commesso viaggiatore della distensione ma capace di adattarsi ai mutamenti e agli obblighi dei tempi. Da ministro degli Esteri e vicecancelliere, dal 1974 al 1992, sostenne, lui liberale fin dal 1946, prima la Ostpolitik del socialdemocratico Willy Brandt, il ribilanciamento di Helmut Schmidt e poi la riunificazione tedesca guidata dal cristiano-democratico Helmut Kohl dopo la caduta del Muro di Berlino.
Come ministro degli Esteri – ha detto ieri Angela Merkel – Genscher «ha tessuto legami instancabilmente nel globo, accumulando fiducia per il nostro Paese»: proprio tra distensione e riunificazione della Germania. Era un mondo diverso, quello degli anni Settanta e Ottanta. La Germania di Bonn era nazione chiave per ragioni diverse dalla Germania di Berlino di oggi: Paese in ricostruzione non solo economica ma anche politica e morale, cercava di ritrovare un ruolo in Europa e nel mondo, stretta tra l’Alleanza Atlantica e la pressione continua che su di essa esercitavano Mosca e Berlino Est. Genscher fu tessitore di grandi rapporti, reti di relazioni a Occidente e a Oriente che, quando già l’Unione Sovietica stava vacillando, permisero a lui e a Kohl di strappare a Michail Gorbaciov il sì alla riunificazione tedesca.
Non sempre ebbe successo. Il punto più drammatico della sua carriera politica fu l’assalto dei terroristi palestinesi alla squadra israeliana all’Olimpiade di Monaco del 1972: da ministro dell’Interno nel governo socialdemocratico di Schmidt, rifiutò l’aiuto di Israele e dovette assistere alla morte di 17 persone, compresi 11 atleti sequestrati, quando intervennero le forze speciali tedesche. Successivamente, il suo desiderio di distensione lo portò in conflitto con Washington sulla questione dei missili Nato in Germania e sull’Iran dell’ayatollah Khomeini. Fu però un uomo di Stato tedesco tutto d’un pezzo. Quando, nel 1982, ormai al governo con i socialdemocratici da oltre un decennio, si rese conto che i tempi erano cambiati, abbandonò la coalizione e portò il suo Partito liberale (Fdp) all’alleanza con i cristiano-democratici di Kohl: pochi lo accusarono di trasformismo, la necessità di garantire la governabilità della Germania era già allora un architrave politico del Paese.
Frau Merkel condivide lo stesso approccio e ieri ha confessato di avere perso un consigliere importante. «Mi inchino con sommo rispetto – ha detto la cancelliera – davanti alla vita di questo grande patriota liberale ed europeo». Era nato nel 1927 in Sassonia ma nel 1952, quando la Germania era ormai divisa, chiese asilo all’Ovest. I liberali tedeschi perdono un altro leader storico, dopo la morte pochi giorni fa di Guido Westerwelle, anch’egli ministro degli Esteri, di cui si terranno i funerali oggi.

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Tonia Mastrobuoni per la Repubblica
«Due aerei si incontrano sull’Atlantico. Su entrambi è seduto Hans-Dietrich Genscher ». Il più longevo ministro degli Esteri tedesco ridacchiava sempre, quando qualcuno gli faceva questa battuta. È morto giovedì notte, a 89 anni, nella sua casa di Wachterg-Pech, come ha reso noto ieri il suo ufficio di Bonn. E la vecchia capitale della Germania Ovest evoca la carriera straordinaria di un politico di razza, maestro della distensione, protagonista dei momenti più cruciali della Guerra fredda e figura chiave della Riunificazione. Ma Genscher è stato anche l’ultimo grande liberale tedesco, ultra realista e carismatico. Dopo di lui, il partito si è lentamente spento, lacerato dalle guerre tra bande e soffocato dai narcisismi dei suoi successori.
Genscher era nato a Halle, al di là della Cortina di ferro, ed era scappato in Occidente poco dopo l’università. Era un convinto europeista, di quelli dall’infanzia devastata dal nazismo e consapevoli dei rischi di un’Europa degli egoismi. Capace di ricordare ai tedeschi che «l’Europa è il nostro futuro » e che «non ne abbiamo un altro». Nel corso della sua lunghissima carriera da ministro degli Esteri, dal 1974 al 1992, accompagnò il paese in alcune fasi complicatissime — dalla crisi dei missili alla Riunificazione — con una proverbiale capacità negoziale. Tanto che gli americani coniarono il termine “genscherismo” — non sempre inteso in modo lusinghiero.
Per l’ex ambasciatore americano a Bonn, Richard Burt, Genscher era «viscido come un’anguilla », imprendibile. In un mondo bipolare, il talento di un maratoneta delle trattative non sempre era apprezzato. Ma la maggior parte dei suoi interlocutori ammirava quell’infaticabile ricerca di una mediazione. La rivista satirica Titanic gli costruì una maschera di batman con le sue grandi orecchie e lo battezzò “Genschman”, supereroe della politica estera. Lui stesso descrisse il genscherismo così: «Se non riesco a raggiungere direttamente un obiettivo, devo cambiare l’ambiente circostante finché diventa raggiungibile».
La beffa del destino è che un maestro della parola come lui sia passato alla Storia per una frase troncata a metà. Il 30 settembre del 1989, da ministro degli Esteri di Kohl, si affacciò dal balcone dell’ambasciata di Praga per comunicare a migliaia di tedeschi scappati dalla Germania dell’Est che avrebbero potuto proseguire il loro viaggio verso l’Ovest. «Sono qui per comunicarvi che il vostro permesso di viaggiare…» la folla coprì il resto con un boato.
Praga fu una delle prime brecce del Muro, che cadde due mesi dopo. E Genscher ebbe un ruolo chiave nelle trattative che portarono dopo alla Riunificazione. Soprattutto nel frenare le asperità di Kohl. Anche in questo ruolo di smussatore, si dimostrò grande, dinanzi a un mondo che temeva il ritorno di una grande Germania. Solo alla fine della sua carriera, Genscher fu forse troppo frettoloso nel voler integrare la Croazia e la Slovenia nella Ue. Quella fretta, certo non solo sua, fece precipitare la Jugoslavia nella guerra fratricida che la divise per sempre.

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Adriana Cerretelli per Il Sole 24 Ore
Era un gigante compassato, Hans-Dietrich Genscher, ma dietro lo sguardo tranquillo una determinazione di ferro. Quando camminavano fianco a fianco nei corridoi del Consiglio europeo a Bruxelles o senza scorta per le strade delle diverse città europee in cui si tenevano ogni sei mesi i vertici Ue, allora il terrorismo islamico ancora non aveva cambiato la vita di nessuno, lui e Helmut Kohl torreggiavano su chiunque: Dioscuri bonari, colossi gentili. Un’altra Germania, un’altra Europa: ereditate in un modo e poi plasmate in un altro che sembrava impossibile. A tutti. Ma non al cancelliere e al suo ministro degli Esteri che insieme remarono, spesso contro quasi tutti, per realizzare il sogno della riunificazione tedesca prima, europea poi.
Era un’epoca incredibile, la storia che all’improvviso cambia rotta disintegrando i poteri della conservazione e lo status quo di un dopoguerra che si credeva immobile per l’eternità. Invece a raffica esplode la fine del mondo: tramontano la guerra fredda e l’ordine di Yalta, crolla il Muro di Berlino, si inseguono riunificazione della Germania, implosione dell’Urss e liberazione dei paesi satelliti dell’Est europeo. Ai rivolgimenti continentali l’Europa comunitaria risponde mettendosi al passo con la nuova storia: lancia la propria storica rivoluzione interna, dotandosi prima del mercato e poi della moneta unica, l’euro.
Dietro il ventennio da leoni, tra la metà degli anni ’70 e ’90, c’è Hans-Dietrich Genscher, il ministro degli Esteri nato nella Germania Est e riparato a Ovest nel 1952: aveva 25 anni e l’ambizione esistenziale di veder un giorno riunite le due Germanie. La sua identità di profugo, sviluppatasi in bilico sull’incomunicabilità tra due culture antagoniste, quella occidentale e quella comunista, ne ha informato tutta l’avventura umana e la diplomazia.
Liberale ed europeista convinto, ha sempre coltivato con discrezione ottimi rapporti con l’universo orientale, facendosi ponte e pontiere tra i suoi due mondi. E così, quando cade il Muro, è Genscher che convince Mikhail Gorbaciov a rinunciare alla Germania Est, il suo alleato più fedele, e ad acconsentire alla riunificazione tedesca. Ma allora la grande Germania faceva più paura ai partner europei che non a Mosca o a Washington. Ed è così che, all’unisono con il cancelliere Kohl, il suo ministro degli Esteri si spende per tessere e rassicurare sul Dna europeista del suo paese, non a parole ma a fatti. La nascita dell’euro è il pegno del nuovo patto intra-europeo: una moneta unica costruita sull’europeizzazione del marco tedesco in cambio del nulla osta dei partner ma prima di tutto della Francia di Francois Mitterrand alla nuova Germania.
Tra tanti successi c’è un’ombra nel suo cursus honorum: nell’ansia febbrile di costruire un nuovo ordine europeo, dove trovasse posto anche la riunificazione con gli ex-fratelli separati dell’Est, Genscher nel 1991 precipita il riconoscimento unilaterale dell’indipendenza della Croazia. L’iniziativa tedesca fu aspramente contestata in Europa e fu il principio di una catena perversa di eventi sfociati nella guerra civile e nella disgregazione della vecchia Yugoslavia.
Protagonista di una storia imprevista e difficile, con cui aveva sempre segretamente sognato di misurarsi, Genscher ha saputo forgiarne abilmente le opportunità. Che non erano affatto scontate: né per la Germania né per l’Europa. Ci si potrebbe chiedere che cosa ne pensasse dell’una e dell’altra oggi, quando sembrano allontanarsi a grandi passi dalla strada che aveva tracciato per entrambe. Probabilmente si intestardirebbe a ricucirne i fili strappati. Per ora però non si vedono In giro suoi degni emuli. Peccato.