Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2016
Standard & Poor’s dice che i dati sull’economia cinese sono troppo poco trasparenti
Non è servito lo sforzo di trasparenza fatto dalla Banca centrale cinese che ieri, per la prima volta, ha sollevato il velo dagli asset sui derivati e i futures in valuta estera in onore del Fondo monetario che, larvatamente, l’accusa di utilizzarli per sostenere il cambio dello yuan.
Per giunta ieri il Governatore Zhou Xiaochuan ha anche annunciato che renderà pubbliche le riserve in valuta – una sorta, finora, di segreto di Stato – proprio per accelerare l’ingresso dello yuan nel basket delle valute per il calcolo dei diritti speciali di prelievo dell’Fmi. La data fatidica è il prossimo primo ottobre, ma Pechino vuol fare le prove generali e soprattutto dimostrare che non è vero che la dote in valuta estera viene utilizzata per rassicurare i mercati e frenare la fuga degli investitori.
No, la notizia di ieri è che Standard & poor, che evidentemente non ha apprezzato questo doppio sforzo di trasparenza, ha tagliato le prospettive per il rating della Cina da stabile a negativo, sostenendo che il riequilibrio economico procede più lentamente di quanto la stessa società di rating si aspettava.
Certamente l’ultimo Congresso del Popolo che si è chiuso il 16 marzo non ha brillato per vigore nell’imprimere una tabella di marcia più spedita alle riforme e questo del rating della Cina AA- con outlook negativo, e addirittura A-1 + sul debito sovrano a breve è un eloquente contraccolpo. In tempi recenti le agenzie di rating hanno utilizzato la bacchetta contro la Cina, continuando a seguire con apprensione le mosse dei vertici che soprattutto ad agosto sono rimasti travolti dal crollo delle borse, poi hanno tentato di introdurre a gennaio infruttuosamente il circuit break per tenere sotto controllo i picchi delle contrattazioni, insomma la situazione è sfuggita di mano più volte.
«Abbiamo rivisto l’outlook che riflette la nostra aspettativa che i rischi economici e finanziari per la solvibilità del governo cinese stanno gradualmente aumentando – ha detto S&P in una nota – il che deriva dalla nostra convinzione che, nel corso dei prossimi cinque anni, la Cina mostrerà modesti progressi nel riequilibrio economico e la decelerazione della crescita del credito».
Saranno proprio gli anni del 13esimo Piano quinquennale appena varato dal Parlamento cinese riunito in seduta plenaria. E siamo ben lontani dalla famosa bottom line del 6.5 recepita nel nuovo Piano, l’agenzia di rating considera che questa linea del Piave sia troppo alta per le reali condizioni in cui versa il Paese.
Nel giorno in cui la Cina dà prova di trasparenza fa specie rilevare che Standard & Poor sostiene che «il reddito medio della Cina è stato inferiore rispetto ai Paesi con rating simili e che la Cina è stata meno trasparente con un flusso più ristretto di informazioni». Quindi, scarsa trasparenza per una lettura dei dati più obiettiva.
Durissimo il responso dell’agenzia di rating: «La crescita cinese rimarrà pari o superiore al 6 per cento l’anno nei prossimi tre anni, il tasso di investimento può essere «ben al di sopra», i livelli sostenibili sono pari al 30-35 per cento del Pil. Queste tendenze potrebbero indebolire la capacità di ripresa dell’economia cinese agli shock borsistici, limitare le opzioni politiche del governo, e aumentare la probabilità di un calo più marcato del tasso di crescita tendenziale».
Un ulteriore downgrade potrebbe seguire anche se Standard & Poor prevede una maggiore probabilità che la Cina cerchi di stabilizzare la crescita pari o superiore al 6,5 per cento, aumentando il credito a una «velocità significativamente più veloce» rispetto alla crescita del Pil nominale.
Ma quel che è peggio la scure dell’agenzia si è abbattuta anche su Hong Kong. S&P ha detto che il downgrade della Regione ad amministrazione speciale di Hong Kong riflette quella della Cina. L’abbraccio mortale di Mainland China ormai fin troppo evidente inizia a presentare il conto. L’agenzia di rating infatti sostiene di non poter più scindere le due posizioni, dati i legami finanziari, economici (e non solo) sempre più stretti con Pechino. La stock connection tra Hong Kong e Shanghai, ad esempio, si sta rivelando un affare per Shanghai non certo per Hong Kong.