La Stampa, 1 aprile 2016
Cosa fare con l’avorio e la strage degli elefanti
Cento elefanti massacrati ogni giorno. Questa l’incredibile cifra di una delle più cruente estinzioni di massa perpetrate da una specie ai danni di un’altra, senza nemmeno l’attenuante del bisogno, ma con l’aggravante dei futili motivi, l’avorio delle zanne. Oggi gli elefanti africani sono ridotti a 350 mila da oltre 25 milioni che erano nel XIX secolo e 5 nel XX: con questi ritmi non ci vorrà molto all’estinzione della specie. La responsabile è certamente la povertà degli uomini di quel continente: chi è ridotto alla fame non risparmia gli altri uomini, figuriamoci un elefante. Ma quella povertà è anche colpa di chi, nel nostro occidente ricco e avanzato, ha colpevolmente accumulato ricchezze alle spalle di un intero continente e non ha mai redistribuito né mezzi né denari. Una povertà che porta i bracconieri a uccidere anche altri uomini (un guardaparco ogni tre giorni in Tanzania), a scatenare guerre e a finanziare il terrorismo fondamentalista: è molto probabile che dietro i morti in Nigeria o in Somalia ci sia il denaro dell’avorio insanguinato.
Il problema è il valore commerciale dell’avorio: distruggerlo significa svuotarlo, renderlo pari a zero, e questa è l’unica via che abbiamo per stroncare il traffico illegale e il bracconaggio. «Ivory crush» si tengono per questa ragione in ogni parte del mondo e, finalmente, anche in Italia. E per queste ragioni non andrebbe, come si sta facendo nella riorganizzazione dei corpi di polizia, smembrato il Cites (Convenzione di Washington sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora minacciate di estinzione) e anzi, andrebbe accolta l’idea di creare una forza di interposizione con le eccellenze del Corpo Forestale dello Stato (oggi in via di riassorbimento nei Carabinieri) da inviare nei Paesi dove il bracconaggio è più grave per cooperare nella sorveglianza con tecnologie moderne e per formare nuovi guardaparco. Una sorta di «caschi verdi» dell’ambiente internazionale come deterrente.
Perché si dovrebbero conservare tutti gli altri viventi, e soprattutto gli elefanti, infine, al di là del valore universale della vita? Perché animali intelligentissimi, sensibili e dotati di strategie sociali notevoli: nelle arene dei Romani doveva intervenire la guardia pretoriana a ucciderli, perché resistevano più di ogni altro uomo o animale. Hanno una memoria proverbiale e sanno riconoscere anche lo scheletro dei propri simili; festeggiano le nascite e piangono le morti degli altri individui, proprio come noi. Una proboscide è molto più di una mano: con diecimila muscoli e un milione di nervi ci si respira, si beve, si mangia, si spostano pesi, ci si accarezza e si stringono rapporti. Si racconta di un elefante che rifiutava di piantare il classico palo telegrafico nell’India coloniale solo perché al fondo del foro di alloggiamento c’era un cane che dormiva: conosco molti uomini che non avrebbero avuto lo stesso scrupolo. Gli elefanti sono stati i padroni del pianeta fino all’arrivo dell’uomo e l’Europa stessa, responsabile di un terzo del commercio dell’avorio, era la loro terra. Sarebbe bene mostrare la dovuta gratitudine garantendone la sopravvivenza.