La Stampa, 1 aprile 2016
I settant’anni da rivoluzionario di Arrigo Sacchi
Il più celebre dei pesci d’aprile del nostro calcio festeggia oggi i settant’anni. Ce ne sono altri di gran nome a fargli corona, Antognoni, Pruzzo, Seedorf, ma non c’è dubbio che sia Arrigo Sacchi l’emblema della bizzarria di questo giorno del calendario.
Trent’anni fa di questi tempi allenava a Parma, dopo una lunga gavetta romagnola. Che avesse nello zaino il bastone di maresciallo si vedeva a occhio nudo, sia per come quel Parma giocava, sia per il gran numero di osservatori e intenditori che la domenica bazzicavano il vecchio Tardini. La spuntò Berlusconi e da lì a pochi mesi nacque quel Milan che ha svecchiato la storia del nostro calcio. Nei suoi quattro anni in rossonero Sacchi vinse due Coppe dei Campioni e uno scudetto: o forse ne perse tre, impresa non semplicissima con la linea difensiva Tassotti-Baresi-Costacurta-Maldini, il trio olandese Rijkaard-Van Basten-Gullit, un altro campione come Donadoni e qualche comprimario funzionale a quel progetto di gioco. Ma il suo Milan innovò profondamente lo spirito conservativo del calcio italiano andando – come si usa dire oggi – a fare la partita in tutti gli stadi d’Europa: la sera al Bernabeu che Baresi e Costacurta misero 25 volte in fuorigioco due attaccanti come Sanchez e Butragueño è rimasta negli occhi di chi la visse e negli annali.
La vulgata volle che quel ciclo finisse con l’aut-aut di Arrigo al presidente: o io o Van Basten. Avendola rievocata di recente su queste colonne, ne ho avuta ferma smentita da Sacchi in persona. La cancello volentieri. Senza però aver dimenticato, in proposito, le confidenze ai cronisti fidati secondo cui più funzionali al gioco del Milan sarebbero stati i movimenti di tal La Rosa, centravanti nientemeno del Licata. Questo per dire che allora come oggi dal bastone di maresciallo alla mano nel panciotto (napoleonico) il passo era breve. Come marginale, per non dire irrilevante era la scelta tra Galli e il povero Pazzagli, tanto gli avversari in porta non tiravano: con il risultato che, le rare volte che accadeva, trovavano un portiere non al massimo della serenità.
Venne l’avventura azzurra, culminata nella sfortunata finale di Los Angeles con i rigori alle stelle di Baresi e Baggio contro un Brasile di rara mediocrità. Poi il brutto Europeo inglese, poi qualche altro scampolo di carriera: tutti di breve durata perché il richiamo della foresta era intatto, ma i conti con lo stress che lo divorava in pura perdita.
Oggi Arrigo Sacchi è un distinto signore che parla e scrive di calcio, del suo modo di intendere il calcio, tenendosi ben alla larga dalle sbracate tifoidee del vecchio Trap. E prendendo puntualmente le distanze dalle letture arbitrali di parte del vicino di seggiola, l’insopportabile Cesari. Che poi lo spartito venga comunque prima dell’interpretazione, e il campione debba sempre e soltanto essere al servizio della squadra, beh, questo è un dogma che in tanti non condivideremo mai. Ma non sarà questo a guastare l’augurio di altri 70, o giù di lì, di questi anni.