1 aprile 2016
In morte di Imre Kertész
Mattia Feltri per La Stampa
Imre Kertész si chiedeva quale alta opinione avessimo di noi per dichiarare irripetibili «i capitoli più bui della storia del secolo [scorso], per esempio il nazionalsocialismo». Lui, che aveva conosciuto i nazisti da ragazzo, deportato ad Auschwitz nel 1944 a quattordici anni, e che al ritorno a casa ci trovò i comunisti, sapeva della perfetta ripetibilità del male. Kertész è morto ieri a Budapest, a 86 anni, ma il cammino non si è fermato. Il suo libro finale, in uscita per Bompiani, si chiama L’ultima locanda e tratta dell’Europa e dell’islam, l’Europa affascinata o imbelle davanti ad Adolf Hitler e al socialismo reale, e ora senza armi sotto i colpi dell’islam per stupidità di democrazia e morbidezza di pacifismo, e cioè per «debolezza terminale», secondo le anticipazioni circolate su Internet. Si direbbe l’atto conclusivo di una delusione che lo aveva già portato a definire l’Europa «un’entità che forse è esistita solo finché non ha avuto un parlamento comune».
Proprio Auschwitz, che Kertész aveva raccontato nel 1975 nel suo romanzo più celebre, Essere senza destino, e nell’inconsapevolezza mondiale perché il regime boicottava gli ebrei, e tanto più quelli un po’ troppo intellettuali, un po’ troppo distanti dal realismo comunista, ecco proprio Auschwitz era per Kertész l’ultimo mito fondante europeo. L’Europa ideale, quella del destino collettivo e non più fratricida, cui si ambiva alla fine della Seconda guerra mondiale, non sarebbe stata immaginabile senza la Shoah.
Dopo i Lumi e il Lager
Prima dell’estremo palpito successivo ad Auschwitz, c’erano stati i Lumi, e poi più nulla. Poi la creatività s’era spenta lasciando piede alla messa in pratica della lezione hegeliana: «La storia è l’immagine e l’azione della ragione. Oggi è facile che sentendo queste parole sorridiamo (con gli occhi gonfi di lacrime), ma non possiamo negare che il mito europeo della ragione, plasmato nel diciottesimo secolo, fu l’ultimo grande mito creativo», scrisse Kertész ne Il secolo infelice, forse il libro che meglio delimita il suo pensiero. Da lì erano arrivate la Rivoluzione francese, quella d’Ottobre, la reazione di abissale spiritualità del nazismo.
Lo scontro mortale fra comunismo e fascismo, e poi il fallimento del socialismo reale, hanno ucciso i Lumi, diceva Kertész. Però una speranza d’Europa conservava fondamento nell’orrore di Auschwitz, e cioè nello spirito di rinascita che emanava. L’Europa era l’ultima chance. Inevitabile in uno come Kertész, bambino nel Lager, operaio nella Budapest staliniana, scrittore inesistente per l’ostilità del regime, ebreo perenne, uomo senza terra anche dopo la caduta del Muro, per cui si sentiva prossimo a Emil Cioran che diceva di essere affratellato soltanto agli ebrei perché come loro si sentiva «fuori dell’umanità».
I primi libri di Kertész cominciarono a circolare alla fine della Guerra fredda, furono tradotti in Germania dove Kertész sarebbe infine riparato perché «oggi la Germania è interiormente più libera e più ricca». La sua Ungheria, che lo aveva perseguitato sotto la croce uncinata e sotto la bandiera rossa, non aveva festeggiato granché il Nobel vinto dal suo scrittore nel 2002, e non è che l’Ungheria ne abbia vinti a dozzine. Essere senza destino, e poi Kaddish per il bambino non nato e Verbale di polizia e tutti gli altri erano entrati nelle librerie d’Europa svelando al continente un figlio imprescindibile. Che però continuava a dire cose poco appetibili per i tempi nostri. Alla celebrazioni per la festa dell’unificazione tedesca del 2003 ammise di essere «convinto che il pacifismo non costituisce la risposta appropriata alla sfida del terrorismo. Come è possibile che improvvisamente si sia dimenticato chi è il nemico e chi l’alleato?». Nel 2009 definì «spaventosa e disperata» la guerra israelo-palestinese, ma «gli israeliani hanno un grave problema da affrontare, quello della sopravvivenza: io solidarizzo con loro». Lasciò l’Ungheria di Viktor Orbán, premier di pura destra in un Paese sempre acceso di antisemitismo.
Ecco, restava l’Europa. Che purtroppo «è esistita finché non ha avuto un parlamento comune». E dunque finché non si è dissolta nel burocratismo senza altezze né profondità. «L’Europa non è soltanto mercato comune e unione di dazi, ma anche spirito e spiritualità comuni». Chiunque voglia farne parte «deve superare, fra tante prove, anche quella del confronto morale ed esistenziale con l’Olocausto».
Il conformismo della Shoah
Solo che nel frattempo «si è creato un conformismo dell’Olocausto, un sentimentalismo dell’Olocausto, un canone dell’Olocausto», mentre «la democrazia non riesce e non vuole corrispondere ai valori che ha imposto a sé stessa», «da nessuna parte si scolpiscono più le leggi inviolabili nella pietra», «nessuno impone più ideali per cui valga la pena vivere», e «la democrazia è diventata talmente malleabile, si è “sdemocratizzata” a tal punto che qualsiasi cosa può entrare tra i suoi limiti e al minimo segno di crisi reagisce con sintomi di isteria generale e pazzia politica»; «ci vogliono far credere che la ripresa economica è la nostra salvezza», ma «sono i termini politici a essere diventati confusi». Lì dentro l’Europa attende la sua ora intanto che Kertész se n’è andato, senza patria com’era venuto.
Giorgio Pressburger per il Corriere della Sera
Uno degli scrittori di romanzi più noti, Imre Kertész, ungherese, premio Nobel per la letteratura nel 2002, ci ha lasciati. Il suo libro più diffuso nel mondo si intitola, in italiano, Essere senza destino (Feltrinelli, 1999): è degli anni Settanta, e narra la storia dell’autore quindicenne, chiuso nel lager di Auschwitz. Kertész era sopravvissuto alla permanenza in quel luogo orribile e dopo quasi trent’anni aveva narrato la sua vicenda. Oltre a Primo Levi e al poeta romeno di lingua tedesca Paul Celan, nessuno è riuscito a parlare di quell’esperienza con la stessa forza tragica, con la stessa capacità di descrivere ciò che non si può narrare, non si può ritrarre con i mezzi espressivi a disposizione di uno scrittore o di un poeta. Accanto a questi tre nomi possiamo menzionarne un quarto: Art Spiegelman, autore americano di fumetti, noto per la graphic novel in due volumi Maus. Ciò che questi autori hanno fatto per evitare l’oblio dell’orrore, parlarne agli uomini, descriverlo, renderlo indelebile nella mente dei lettori, non è riuscito, secondo me, a nessun altro.
Chi era Kertész? Nato nel 1929, figlio di una famiglia di ebrei della piccola-media borghesia di Budapest, portato ad Auschwitz a quindici anni, tornato in Ungheria tre anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, svolse un certo apprendistato presso vari giornali e cominciò a scrivere racconti, commedie, sketch da cabaret, per procurarsi da vivere. Durante gli anni dello stalinismo ebbe una vita molto difficile, perché non condivideva la filosofia e la prassi di quel regime, pur tenendosi lontano da qualsiasi organizzazione politica. Pubblicò Essere senza destino soltanto nel 1975, prima non glielo avevano permesso in nessun modo. Quel libro tuttavia non poté uscire dall’oscurità, non era segnalato, sostenuto, indicato da nessuno. Dovettero passare molti altri anni prima che fosse pubblicato in Germania. Vicissitudini private, ristrettezze economiche, malattie in famiglia aggravarono ancora la sua situazione, finché un secondo matrimonio e un certo miglioramento della sua posizione sociale non gli permisero, dopo la caduta del Muro di Berlino, di estendere le sue frequentazioni intellettuali, favorendo l’emersione nella letteratura mondiale delle sue opere.
Intanto altri suoi romanzi e racconti presero a circolare in Europa, dove vennero tradotti in molte lingue. Quando qualcuno lo propose al premio Flaiano di Pescara (dove poi ebbe un riconoscimento speciale), nessuno della giuria conosceva ancora né il suo nome né le sue opere. Era il 2002. Pochi mesi dopo arrivò il premio Nobel. E così le tragedie del lager, le restrizioni da parte degli stalinisti, la povertà, la miseria civile vennero in qualche modo ricompensate dal destino: Kertész divenne celebre in tutto il mondo, fu invitato a tenere conferenze in molte nazioni, a scrivere sui giornali, a sviscerare i problemi del razzismo e dell’antisemitismo di nuovo dilagante nel mondo. Negli ultimi anni era vissuto in parte a Berlino, in parte a Budapest, dove è morto.
Le sue opere parlano in modo serio, a volte straziante, ma mai retorico o inautentico: dal punto di vista letterario e filosofico si tratta di libri di un rigore e di una consequenzialità talmente forti da serrare la gola. Questi lavori non si adattano all’andamento odierno degli indirizzi editoriali, non concedono facili intrattenimenti, ma obbligano il lettore a una riflessione rigorosa, seria, umana e non da automatismo del mercato. Tuttavia proprio per questo offrono un godimento fuori dell’ordinario, una forza che ci ridà energia e fiducia nel mondo, nella vita, per quanto vano e oscuro possa essere il primo, piena di terribili ostacoli la seconda.
Bompiani e Feltrinelli hanno avuto il coraggio di pubblicare questi libri. Ecco alcuni titoli: Kaddish per un bambino non nato (Feltrinelli, 2006 ), Fiasco (Feltrinelli, 2003), Il vessillo britannico (Bompiani, 2004), Io, un altro (Bompiani, 2012) e alcuni volumi di racconti brevi. Essere senza destino, da cui è stato tratto anche un film, è un altro tipo di lettura: appartiene a un tipo di narrazione estraneo a qualunque schema o tema precedente. Tanto è forte che ho sentito dire a uno scrittore che era invidioso delle sofferenze di Kertész nei campi di concentramento, che lo avevano dotato di una forza e di un’intelligenza irraggiungibili.
Una considerazione riguardante l’uomo Kertész. Per chi lo ha conosciuto di persona, c’era in serbo un’altra sorpresa. Non in una sua parola o frase era riscontrabile alcuna forma di odio, desiderio di vendetta, o acredine. Alcun vanto d’aver superato una prova esistenziale così dura, così mortale. Di quelle vicende non parlava nemmeno: le aveva trasferite nelle sue opere, che dovevano parlare per sé. Non erano frutto di artificio, di macchinazione artistica: erano brandelli di carne umana ancora sanguinante, palpitante.
Era una persona radiosa, soltanto a salutarlo ci si predisponeva alla serenità, alla benevolenza, al senso di solidarietà. Ma in questo atteggiamento non c’era nulla di premeditato o esibito. Era tutto naturale, autentico, senza alcuna possibilità di equivoco. Per questo era una gioia incontrarlo e un dispiacere non vederlo per qualche tempo. Insieme alla seconda moglie (la prima era morta molto tempo fa) costituivano una coppia innocente e ingenua come quella di Tamino e Pamina di Mozart, nel Flauto magico. Infatti, si trattava di due grandi amanti della musica, senza preclusione per questo o quel genere. Stranamente, la loro conoscenza sorridente trasportava gli amici proprio nell’ambito della musica, e non nell’ambito del nero dolore, dell’oscura sofferenza in cui la vita li aveva trascinati. La prima cosa che si percepiva, incontrandoli e facendosi cingere da abbracci e parole di amicizia, era al di fuori del potere della parola, ma circonfuso della dolcezza e della forza di «Frau Musika», la Signora Musika, come l’aveva chiamata Bach.
L’ultima volta l’ho incontrato, qualche anno fa, a Montecassino. Eravamo saliti insieme a visitare l’abbazia e già si sentiva lo sforzo che gli era costato il tragitto. Eravamo ospiti di un premio letterario sulla letteratura di guerra. Sotto, nel museo, si potevano vedere documenti filmati dell’attacco aereo a quel monastero raso al suolo nel 1944. Il sorriso di Kertész non era svanito; era soltanto diventato meno luminoso, meno radioso di prima. Per il resto non aveva fatto commenti, soltanto si era lasciato andare a qualche cenno verbale tipo «già», oppure «è così». Durante tutta la discesa nella sala della conferenza aveva solo canticchiato in tedesco l’aria di un’opera, non avevo capito quale, né avevo osato disturbarlo, perché sotto quella melodia sentivo celato un lancinante dolore.
Ora il mondo dovrà fare a meno della presenza di un uomo che faceva onore al genere umano, alla sua nazione, al suo secolo. Il tipo di scrittore, di poeta a cui apparteneva, oggi diventa sempre più raro, ma il suo esempio dimostra che comunque l’umanità genera esempi sempre nuovi, quali non siamo capaci di prevedere.
Susanna Nirenstein per la Repubblica
«Proseguirò la mia vita che non è proseguibile» scriveva Imre Kértesz, scomparso ieri a Budapest a 86 anni, nell’ultima pagina di “Essere senza destino”. Nonostante il buio dei massacri nazifascisti dentro cui è passato, nonostante non ci sia risarcimento possibile al lager, salvato dal caso, appena ha potuto, specie dopo la caduta del regime comunista che l’ha oppresso e emarginato, ha vissuto con ironia e sorrisi, persino con le civetterie dei vecchi intellettuali mitteleuropei, cappelli borsalino e sciarpe chiare per
poi conquistare il Premio Nobel per la Letteratura nel 2002. Era forte perché sentiva dagli anni ‘60 di voler testimoniare Auschwitz dove era stato rinchiuso a 14 anni, deportato in mezzo al ciclone che mise a morte oltre 400.000 ebrei negli ultimi mesi della guerra, e liberato a Buchenwald nel 1945. Testimoniare la Shoah, ma non solo, dire piuttosto che il nazismo, l’annientamento degli ebrei, e le altre dittature del Novecento con i loro gulag e campi di rieducazione, facevano interamente parte della nostra cultura, come le nostre lingue, la musica, la letteratura e che di questo l’Europa doveva rendere conto. Così come nel terzo millennio si affannava invece a dire, aggiornando il capitolo dei fondamentalismi, che il maggior compito del Vecchio Continente era riconoscere il pericolo del terrorismo, un interlocutore incapace di mediazioni, disinteressato ad averne, e combatterlo senza paura.
Tra i suoi numerosi romanzi e saggi, interamente dedicati alla Shoah e ai totalitarismi, il più speciale, accostato ai libri di Primo Levi e di Amery, è senz’altro Essere senza destino scritto in dieci anni (1975, pubblicato in Italia da Feltrinelli nel ‘99, da lui sceneggiato per un film con la regia di Lajos Koltai nel 2005 ). È speciale perché racconta fuori da ogni retorica, con gli occhi di un ragazzino innocente, l’incontro con la macchina della morte. Con Kertész e il suo personaggio del tutto autobiografico siamo passo per passo, nefasta novità dopo nefasta novità, dentro l’incubo reale di ogni giornata in modo crudo, diretto, senza giri di parole, lo sporco, la fame, l’incontro difficile con i compagni di sventura che a volte, spesso, scompaiono, i mal di pancia, i rari, eroici, episodi di solidarietà di un tozzo di pane condiviso, e l’imperativo di sopravvivere, “non lasciarsi andare”, non diventare quelle “cornacchie infreddolite” che si chiedono se “valga ancora la pena”. Lui va avanti e impara osservando alcune regole fondamentali: «la cosa più importante è lavarsi, altrettanto importante è suddividere la razione con parsimonia – non sapendo se ne seguirà un’altra...; durante l’appello o quando si marcia in colonna l’unico luogo sicuro è sempre e soltanto il centro; durante la distribuzione della minestra non si cerchi di stare davanti». La sua è la cronaca naturale e surreale di un giovane che non conosce le coordinate del campo di sterminio e dunque l’attraversa misurandolo con piccoli gesti tesi a superare il nuovo ostacolo, che sia fame, febbre, freddo, infezione; e anche se la morte gli respira ogni giorno addosso, prova istanti di felicità nei momenti in cui capisce di essere ancora vivo.
L’io narrante non sa dove si trova, noi sì, e questo crea uno strano meccanismo di suspense nonostante la storia sia nota. Un punto di vista geniale, e libero.
Nato da ebrei modesti e religiosi nel ‘29, ha capito, per quanto fosse lontano dall’ebraismo, il senso della sua identità dopo la Shoah, quando tornò in patria, ritrovò come un tempo un antisemitismo pervasivo e vide come il paese non avesse nessuna voglia di affrontare la corresponsabilità nell’uccisione di quasi mezzo milione di ebrei tra il ‘44 e il ‘45. Comunque si dette da fare. Fece il giornalista subito licenziato, fece parte dell’intellighenzia di opposizione, parteggiò per la rivolta del ‘56, trovò umili lavoretti e iniziò a tradurre Nietzsche, Freud, Wittgenstein, Canetti in un piccolissimo appartamento sul Danubio. L’interessava il tema dell’individuo immerso nel totalitarismo, quando sono gli altri a decidere il tuo fato, nel nazismo così come nel comunismo. Tanto che spesso ha voluto chiarire come nei suoi libri sulla Shoah parlasse anche del regime di János Kádár, il dittatore che governò l’Ungheria fino a poco dopo la caduta del Muro. Nel ‘75 riuscì a pubblicare Essere senza destino, un libro quasi ignorato, e a vivere traducendo e scrivendo romanzi poco celebrati.
Quando però arrivò il Nobel, nel 2002, il mondo si accorse di lui. Caustico, nel suo discorso a Stoccolma disse «Non è facile essere un’eccezione e pensare a quanti sono morti senza avere visto la misericordia. Mentre ci trasportavano nei vagoni non ci dicevano che il contratto prevedeva, alla fine, il premio Nobel. Ma la vita è assurda e quest’assurdo bisogna saperlo accettare: accettare che ti vogliano ammazzare e poi che ci sia gente che abbia voglia di ascoltare in che modo ti volevano ammazzare». Uscirono anche all’estero i tanti libri che aveva scritto, si permise di vivere per alcuni anni a Berlino, finalmente senza ristrettezze, ricevendo visite e giornalisti in quello che considerava il suo ufficio, il bar dell’Hotel Kempinski, sul Ku’damm, gli Champs-Élysées della grande città riunificata, che lasciò pochi anni fa in pieno Parkinson. Nel frattempo arrivarono anche in Italia i suoi titoli, Fiasco, Kaddish per il bambino non nato, Liquidazione (storia di un sopravvissuto che arrivato ai 50 anni si suicida), Verbale di polizia, Storia poliziesca, Diario dalla galera, Dossier K, Il secolo infelice... Tutti libri che confermarono la sua fama. A settembre Bompiani pubblicherà L’ultima locanda.
Sì, con il Nobel, a dispetto dei fantasmi, la vita migliorò. Peccato che in Ungheria si lamentarono in molti. Dissero: perché premiare un ebreo e non un vero ungherese?
Giulio Busi per Il Sole 24 Ore
In un’intervista rilasciata nel 2009, in occasione del suo ottantesimo compleanno, Imre Kertész disse di considerarsi un berlinese, anzi «ein Berliner». Per essere il primo, e sinora unico scrittore di lingua ungherese ad aver ricevuto il Nobel (nel 2002), una simile professione di appartenenza sembrava fatta apposta per suscitare malumore, sorpresa, fastidio. E così fu. Non Budapest ma la capitale tedesca, scelta a simbolo da chi, a quindici anni, era stato rinchiuso ad Auschwitz ed era scampato prodigiosamente? Gusto della provocazione, esterofilia – dall’Ungheria non gli vennero risparmiate le accuse. Eppure, per chi conosce la scrittura di Kertész e il suo mondo interiore, questo predicarsi altrove, scriversi su di un registro sbagliato, fuori posto, fuori riga, non è certo sorprendente. «Sono un figlio della metropoli … un decadente, uno sradicato», alle domande del 2009, Kertész rispondeva con la franchezza di un giovanotto un po’ blasé. Ma può uno scrittore sbagliare la scelta della parole? Pensate al titolo del suo libro più famoso, Essere senza destino. Come il protagonista del racconto è privato di tutto ma non della sua innocenza e dello slancio vitale dell’adolescenza, così tutte le qualifiche negative che Kertész ha scelto, nella letteratura e nella vita– non-di-Budapest, non-con-radici, ebreo-non-ebreo – affermano in positivo, costruiscono significato proprio quando paiono sfuggire alla responsabilità di una scelta. Nella sua autobiografia, quel Dossier K. in cui imbastisce un’intervista vera-falsa su se stesso, Kertész ha esposto con lucidità le leggi del proprio universo narrativo: “Considero la mia vita come materia prima per i miei romanzi: sono fatto così, e questo mi libera da qualsiasi inibizione”. Per trasformare la Shoah in racconto era davvero necessario strapparsi di dosso le inibizioni e le paure, poiché la paura assoluta si racconta solo dopo averla attraversata, bucata da parte a parte. E dopo aver compreso che, per descrivere il vero Auschwitz, è necessario reinventarlo. Nei suoi libri migliori, Kertész non si accontenta dei cosiddetti “fatti storici”. Tutto viene trasposto, tradotto nel mondo che s’irradia come un alone attorno ai personaggi. “Dalle prime frasi – scriveva a proposito di Essere senza destino – si ha la sensazione di essere entrati in un dominio straniato, autonomo, ove tutto può accadere”. Davanti a una simile fede della parola, che crea il proprio mondo e lo sigilla ermeticamente, scambiare Berlino per Budapest, o dichiararsi figlio della lingua e non della nazione non è posa da dandy ma scelta ermeneutica. Se la Shoah ha distrutto un mondo, o meglio, il mondo, lo scrittore che ne sia partecipe deve esercitarsi a scomporre, slabbrare, travisare. È per questo, per la virtù mitopoietica della suo essere perennemente altrove, nel suo “dove”, che Kertész esprime, senza abbellirlo, il mistero del secolo XX, quest’età di distruzione, dissoluzione, minaccia: “Afferrai il semplice segreto dell’universo che mi era stato rivelato: potevo venir abbattuto a fucilate dovunque, in qualsiasi momento”. È, si badi bene al sostantivo, un segreto universale, quello che si dischiude davanti agli occhi del narratore. Non una verità biografica, non un evento casuale o storico. Sarebbe meschino ridurre l’arte di Kertesz, grande fuori-luogo del XX secolo, a una banale diatriba nazionalistica o anti-nazionalistica. La Germania dello sterminio, l’Ungheria della deportazione o dei lunghi anni di ipocrisia post-bellica, l’Europa degli antisemitismi risorti, in tutti questi luoghi simbolici Kertész ha manifestato un’unica, ripetuta rivelazione. Non-al-sicuro, non-al-nostro-posto, non-legittimi, solo così riusciamo a raccontarci.