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 2016  aprile 01 Venerdì calendario

In morte di Zaha Hadid

Stefano Bucci per il Corriere della Sera
Seduta in mezzo a un gruppo di suoi giovani assistenti, Zaha Hadid scrutava attentamente chiunque attraversasse la hall del Mercer Hotel di Soho, New York: scrutava, parlava sottovoce (un pettegolezzo tra buoni amici), sorrideva. Un’immagine di poco tempo fa che conferma le parole di dolore scelte dallo studio Zaha Hadid Architects (246 dipendenti, 45 tra i più importanti del mondo) per commentare l’improvvisa scomparsa (ieri mattina, a sessantacinque anni, per un infarto, mentre era ricoverata in ospedale di Miami per curarsi una bronchite) della prima donna a conquistare il Pritzker Prize, il Nobel dell’architettura nel 2004. L’unica ad aver conquistato (oltre al Pritzker) anche lo Stirling, la medaglia d’oro del Royal Institute of British Architects, il Praemium Imperiale giapponese.
La «nostra eroina» l’hanno definita: «una donna piacevole, simpatica, che sapeva stare con gli amici e che sapeva però apprezzare il lavoro dei suoi colleghi» (in particolare Holl, Koolhaas, Gehry, Eisenmann). Anche «se la sua sicurezza la faceva apprezzare più dalle persone normali che non dai suoi colleghi, gelosi del suo incredibile talento». Tra i primi messaggi di cordoglio quelli del ministro Dario Franceschini, della presidente della Fondazione Maxxi Giovanna Melandri («Una grande donna forte e innovativa; ci mancheranno il suo estro e il suo genio»); del sindaco di Salerno Vincenzo De Luca che le aveva commissionato la Stazione Marittima che verrà inaugurata alla fine del mese.
Zaha Hadid era nata a Bagdad nel 1950 da un industriale sunnita tra i leader dell’Iraqi Progressive Party e da una principessa, poi era stata costretta a abbandonare il suo Paese, un Paese a cui era rimasta sempre molto legata (a lungo aveva conservato – confessava – «una foto della sua scuola vicino al Tigri perché le procurava tenerezza e dolore»). Durante il suo esilio Zaha (donna fisicamente maestosa, grandi occhi profondi, una passione eccezionale per le scarpe) aveva prima studiato matematica all’Università di Beirut, approdando nel 1972 all’Architectural Association di Londra, dove attualmente risiedeva (nel cuore di Clerkenwell) e dove si era laureata nel 1977 aprendo qui il primo nucleo del suo studio nel 1979.
Già nei suoi primi disegni (bellissimi) si ritrovavano le radici del suo lavoro: le linee curve, le citazioni di Paul Klee, del Costruttivismo, del Suprematismo modernizzate dall’uso (fin troppo eccessivo secondo i critici) del rendering, perché «la tecnologia ci permette di superare i limiti della progettazione» (tra i suoi primi lavori il Peak di Hong Kong nel 1983). La svolta definitiva nel 1993 con la Vitra Fire Station di Weil am Rhein in Germania (per molti il suo capolavoro) e il Rosenthal Center for Contemporary Art di Cincinnati (2003). Anche se l’Italia (e non solo) avrebbe imparato a conoscerla con il Maxxi di Roma: un cantiere lunghissimo e costoso che avrebbe però letteralmente recuperato una parte della città (all’inaugurazione Zaha si era presentata vestita con un’incredibile cappa bianca e lunghi guanti luccicanti). Poi sarebbero venuti altri mega progetti (destinati a suscitare comunque polemiche): il Guangzhou Opera House in Cina (2010); il London Aquatics Centre (2011) per i Giochi olimpici; l’Heydar Aliyev Centre di Baku (2013).
Si definiva «ammalata di lavoro» e per questo lamentava «di non avere più tanto tempo per me». Certo è che per qualcuno il lavoro di Zaha Hadid è sembrato (ingiustamente) il simbolo di un’architettura troppo grande per poter diventare realtà («larger than life» è una delle espressioni che i suoi colleghi di studio usano per ricordarla). Basti pensare alle (recenti) polemiche a proposito del cantiere per CityLife a Milano (giunto ormai agli ultimi ritocchi), dello stadio astronave per l’Olimpiade di Tokyo del 2020 (incarico che le era stato revocato) o dello stadio dei Mondiali di Calcio del 2022 in Qatar. Ma a questo gigantismo Zaha Hadid (che fra i design italiani amava Mendini, Superstudio e Castiglioni) aveva saputo rispondere con progetti più ridotti ma più armoniosi. Come il sesto Messner Mountain Museum sulla vetta del Plan di Corones (in Val Pusteria), inaugurato lo scorso luglio. O la Stazione Marittima di Salerno, che si aprirà a fine aprile. Un progetto a cui, come sempre, si era dedicata con grande passione e dedizione. E che lei stessa avrebbe dovuto inaugurare.

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Francesco Erbani per la Repubblica
«L’architettura deve offrire piacere», diceva Zaha Hadid. E a questo criterio, che predilige nettamente la percezione alla funzionalità e che non cesserà di far discutere chi l’architettura realizza e chi la usa, si è sempre attenuta la progettista anglo-irachena morta ieri a Miami. Zaha Hadid aveva 65 anni ed era stata ricoverata in ospedale per una bronchite. Qui l’ha colta un attacco cardiaco.
La carriera di Zaha Hadid è racchiusa nello spazio di oltre trent’anni durante i quali ha interpretato l’architettura in modo multiforme, dal design fino alla progettazione urbana, dalle scenografie ai grandi edifici pubblici. Aggiungendovi la costruzione di un’immagine di sé che l’ha resa celebre oltre il recinto dell’architettura. Personaggio Zaha Hadid lo è stato fin dall’esordio sulla grande scena internazionale, esordio che risale al 1993, quando a Weil am Rhein viene inaugurata la sua Stazione dei vigili del fuoco nel Vitra Campus. La sua impronta assai poco convenzionale, la sua rivolta contro l’ortogonalità e le coordinate cartesiane, il proposito costante di catturare il movimento sono il tratto potente di una personalità che assimila linguaggi artistici e proietta l’architettura in un ambito al tempo stesso innovativo e spettacolare. Nata a Baghdad nel 1950, Zaha Hadid studia matematica a Beirut poi, nel 1972, si trasferisce all’Architectural Association di Londra, dove lavora con Rem Koolhaas e Bernard Tschumi. Nel 1979 fonda il proprio studio nella capitale inglese. L’edificio a Weil am Rhein, seguito da un altro sempre nello stesso campus, le consente di compiere un salto di scala. Verranno poi, fra gli altri progetti, il Centro d’arte contemporanea di Cincinnati e il trampolino di salto con gli sci a Innsbruck. L’effetto ricercato è lo stupore, realizzato maneggiando con invidiabile maestria la tecnologia. Le pareti sono oblique, gli angoli retti scarseggiano.
La dimensione internazionale è quella che più si adatta a una ricerca costante, che assimila i suoi edifici a sculture destinate a toccare emozioni. Nascono così l’Opera House di Guangzhou, in Cina, oppure il Centro culturale Haydar Aliyev a Baku, capitale dell’Azerbaijan o, ancora, il London Aquatics Centre per le Olimpiadi del 2012. Fra il 1999 e il 2010 Zaha Hadid s’impegna nella più importante delle sue opere italiane, il Maxxi, Museo del ventunesimo secolo, realizzato a Roma nel quartiere Flaminio, sostituendo edifici militari preesistenti. Il progetto è ambizioso, ardito, e si affida a una complicata rete di interconnessioni. Amato e criticato, ospita un museo d’arte e uno d’architettura e poi biblioteche, auditorium e grandi spazi pubblici all’aperto. Nel 2004 le viene assegnato il premio Pritzker, prima donna a riceverlo. E finora unica, insieme a Kazujo Sejima.

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Luca Molinari per La Stampa
«Sono una donna. Sono araba. Sono un architetto. Biologia e geografia hanno segnato i primi due. Il terzo è stato realizzato grazie a quaranta anni di duro lavoro». Così Zaha Hadid parlava di sé in una recente intervista al compimento dei suoi primi 65 anni. E oggi, improvvisamente, la prima progettista donna ad aver vinto il Pritzker Price, ovvero il Nobel per l’architettura, e una delle star indiscusse della scena creativa mondiale, è scomparsa a Miami per una complicazione cardiaca.
Nata nel 1950 a Baghdad, studi durante gli Anni Settanta alla scuola AA di Londra in un periodo aureo, dove i professori erano alcuni degli architetti «radical» italiani e britannici più innovativi del tempo e tra gli studenti s’incontravano Rem Koolhaas, Elia Zenghelis e Bernard Tschumi.
Zaha Hadid da subito costruisce un percorso progettuale e di ricerca unico che la porta rapidamente al centro della scena architettonica internazionale in un momento in cui l’emergere dell’architettura decostruttivista, di cui lei è considerata una dei principali fautori, anticipava nelle proprie linee l’avvento del computer e del mondo digitale.
Il primo progetto non realizzato per il Peak Leisure Club di Hong Kong del 1982 dichiarava un mondo di forme totalmente inatteso. La Hadid lavorava attraverso disegni potentemente dinamici che pescavano nelle radici futuriste e costruttiviste del Movimento Moderno. Energia, rapidità, fluidità instabile delle forme sprizzavano da questi disegni che sovrapponevano le architetture a un paesaggio metropolitano anonimo alla ricerca di opere forte capaci di ripensarlo.
E questi sono alcuni dei caratteri che accompagneranno il suo lavoro lungo la sua intensissima carriera in una continua ricerca che incrociava un’idea monumentale, potente del manufatto architettonico alla dimensione plastica e al bisogno di dare forma a quel flusso continuo di informazioni ed energie che caratterizza il nostro mondo.
Durante gli Anni Novanta Zaha Hadid realizza le prime due opere: la stazione dei vigili del fuoco nel Campus Vitra a Weil-am-Rhein e un terminal per gli autobus a Strasburgo.
Il 2004 è un anno di svolta con la vittoria del Pritzker Price e la sua definitiva affermazione sulla scena globale. In questo la Hadid è una delle autrici che meglio hanno rappresentato lo spirito di un tempo in cui la figura dell’architetto è diventata icona glamour, strettamente intrecciata al mondo della moda e di una creatività capace di muoversi con facilità formale da una nuova serie di scarpe fino alle grandi architetture monumentali realizzate in molte delle metropoli emergenti sulla scena internazionale.
La sequenza delle opere realizzate in questi ultimi dieci anni è impressionante, dal Maxxi di Roma al palazzo dell’Opera di Guangzhou, la piscina olimpica di Londra, il recente Museo Messner in Alto Adige e una serie di grandi edifici pubblici a Baku, Beirut, Anversa, Baghdad, Miami e Seul. Opere in cui il limite sottile tra ricerca avanzata e formalismo è stato spesso portato alle conseguenze estreme da un’autrice che non ha mai avuto paura di sperimentare e di dare forma possibile a quelle realtà che domandano con insistenza forme e soluzioni per affrontare un futuro sempre più incerto.

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Francesco Bonami per La Stampa
Intervistata da un quotidiano italiano, Zaha Hadid disse che era stufa dell’Italia, delle sue lentezze, della sua burocrazia. Certamente le idee dello spazio di questa grande architetta sono più adatte alla velocità che alla lentezza. Le cose che le sono venute meglio sono i trampolini per il salto con gli sci, le stazioni ferroviarie e tutto ciò che ha a che fare con il movimento. Gli spazi, invece, dedicati alla riflessione e alla permanenza le venivano peggio.
Primi fra tutti i musei. Ne ho visti alcuni e tutti, pur spettacolari, non erano funzionali alla loro natura, quella di mostrare arte. A Cagliari aveva in ballo il museo per l’arte dei Nuraghi, ma dal progetto, pur affascinante, non pare avesse capito bene il contesto e il contenuto. Zaha Hadid era brava con la forma, non con lo spazio. Il terminal marittimo a Salerno, la stazione ferroviaria di Afragola e il Museo Messner a 2275 metri di altezza sul Plan de Corones funzionano bene. Le loro forme esprimono e servono bene il contenuto. Anche gli appartamenti a Milano di Citylife da fuori sono belli, più complicati da viverci.
Ma in Italia lo sbaglio più grosso Zaha Hadid lo ha fatto con il museo Maxxi. Certo aveva dei committenti che meno di lei sapevano come doveva essere un museo di arte contemporanea. Il risultato è, come lo descrisse una volta un suo collega, un edificio che funzionerebbe benissimo se fosse una grande palestra, ma come museo è un disastro. Per chi deve pensarci dentro mostre di arte è un incubo più che una fantasia. Oggi è comunque un giorno tristissimo per la storia dell’architettura. Maxxi a parte, Zaha Hadid di questa storia è una colonna o meglio un ponte sospeso, del quale sentiremo con il tempo una grande mancanza.

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Fulvio Irace per Il Sole 24 Ore
A Salerno l’aspettavano il 22 aprile per inaugurare la nuova stazione marittima progettata nel 2000 a seguito di un concorso internazionale che l’aveva vista vincitrice. È la quarta opera eseguita in Italia, insieme al Maxxi di Roma e alla torre di City Life nell’ex area della Fiera a Milano: la più piccola,( insieme al Museo Corones sulle alpi di Brunico) ma forse la più bella per la sinuosa silhouette che si infila nel molo della città come il profilo di una nave leggera.
Ma quella che doveva essere una festa, sarà una commemorazione perché, a soli 65 anni, la gran Dama dell’architettura internazionale si è spenta per un infarto all’ospedale di Miami dove era stata ricoverata per una bronchite.
Il suo talento era indiscutibile, come il suo temperamento difficile e battagliero, inevitabile strumento di attacco in un mondo, come quello dell’architettura, che rimane ancora terribilmente condizionato dalla cultura maschile.
Nata a Bagdad il 31 ottobre 1950 da una famiglia benestante, dopo gli studi di Matematica all’Università americana di Beirut, Zaha fa il passo decisivo della sua vita, trasferendosi a Londra che nel 1972 era forse l’unica città già globale in Europa. La sua scuola fu l’Architectural Association, autentica fucina di talenti stravaganti e creativi, come il suo amico e primo compagno di studi, Rem Koolhaas, non a caso come lei anticonformista globetrotter capace di trovarsi a proprio agio nelle più disparate situazioni politiche culturali. Fu nel 1983 il concorso per The Peak ad Hong Kong a segnalarla come astro nascente della nuova architettura: progetto teorico e d’avanguardia, ma proprio per questo in grado di segnare l’immaginario mondiale per le sue linee spezzate e ribelli, che lei associava alla pratica estetica della scrittura del suo Paese. Da allora la sua carriera è stata tutta in discesa: nel 2004 le viene assegnato il Pritker Price e nel 2016 la Riba Royal Gold Medal , per la prima volta assegnati a una donna, mentre nel 2008 Forbes l’ha inserita tra le 100 donne più famose del mondo.
La sua forza stava nel potere di trasformare l’architettura in un linguaggio di forte impatto emotivo : un vorticare organico di linee ondeggianti che sfruttano le tecniche più sofisticate del digitale per sovvertire i canoni tradizionali dell’architettura fatta di travi e pilastri.
Il Museo Messner Corones si incastra sulla vetta del monte e ne esce, come un serpente di montagna, sui lati esposti a valle, senza una sola linea retta, in modo da sembrare quasi un inserto naturale. Anche la Guangzhou Opera House, il Rosenthal Center for Contemporary Art di Cincinnati o il London Olympic Aquatic Centre- tra le sue opere più recenti e mediaticamente esposte – hanno la stessa facilità di movimenti e come il Maxxi a Roma propongono al pubblico un’esperienza dello spazio assai anticonvenzionale: nei suoi edifici infatti sono banditi stanze e corridoi. Tutto scorre fluido e senza intoppi, come se il cemento diventasse duttile e plasmabile sino ad assumere la parvenza di un nastro irrequieto.