Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  marzo 31 Giovedì calendario

La Libia, l’Egitto e il fallimento delle politiche occidentali nei paesi islamici

Non si sa se fa più ridere o più piangere lo sbarco via mare a Tripoli del poderoso “governo libico di unità nazionale” imposto dall’Onu, capitanato da tal Fayez Al Serraj e subito rintanatosi nella base navale di Abusetta (potenza della toponomastica) “in attesa che sia garantita la sicurezza in un’altra sede a Tripoli“. Traduzione: al momento, se il premier o i suoi ministri mettono il naso fuori, gli sparano da tutte le parti. Tanto per dare un’idea dell’“unità nazionale” che la combriccola di noti frequentatori di se stessi, creata a dicembre in Marocco e riunita fino all’altroieri a Tunisi, rappresenta in Libia. Dove non controlla neppure un palmo di territorio. La comitiva aveva provato più volte ad arrivare in aereo, ma rischiava di essere abbattuta in volo, così ha optato per la barca, tipo clandestini. L’allegra brigata è legittimata dalla “comunità internazionale”, ma non purtroppo dal Parlamento di Tobruk né dagli altri due governi (Tobruk e Tripoli), che non sono riconosciuti dall’Onu ma da una parte del popolo libico, quindi non contano. Senza dire dei militari, dei soldati Isis e delle tribù, che giocano ciascuno la sua partita.
Cosa sia venuto in mente all’Onu, o a chi per essa, di costringere questi poveretti a una simile figuraccia, è presto spiegato: la fretta di poter dare la Libia per “stabilizzata” e “pacificata” e soprattutto di disporre di un governo à la carte che chieda alla cosiddetta coalizione anti-Isis di intervenire in Libia. L’inviato speciale dell’Onu Martin Kobler spiega, restando serio, che “è urgente un pacifico e ordinato passaggio dei poteri”. Ecco, “pacifico” e soprattutto “ordinato” mentre tutti sparano a tutti e molte milizie considerano l’arrivo del governo-fantoccio Onu una provocazione da accogliere con un ulteriore aumento del volume di fuoco.
Casomai servisse un’altra plastica dimostrazione del pretenzioso fallimento delle politiche occidentali nei paesi islamici, eccola. Ora manca solo l’invio di truppe e cacciabombardieri per consacrare agli occhi dei libici quello che già sanno nel profondo del Dna: che sono di nuovo una colonia dell’Occidente. Naturalmente è quello che sperano l’Isis, al Qaeda, Boko Haram e tutte le filiali del terrore jihadista: un altro bel po’ di propaganda gratuita per raccattare altra manodopera gratuita di fanatici e disperati pronti a farsi saltare per la Causa. Mutatis mutandis, è quello che accadde nel 1992 in Algeria, quando il democratico Occidente favorì il golpe contro il governo eletto del Fronte di salvezza islamico.
E si ripeté tre anni fa in Egitto, dove i Fratelli musulmani vinsero le elezioni con Morsi e l’Occidente pilotò il putsch di al-Sisi. Sempre la stessa storia: esportiamo la democrazia ma, appena le elezioni le vince chi non ci piace, ce la riprendiamo indietro. Decidiamo noi chi è democratico: di solito, chi le elezioni le ha perse. Così chi aveva votato ci odia più di prima, si butta fra le braccia del terrorismo e noi – in nome della lotta al terrorismo – rafforziamo chi del terrorismo è la prima causa. Un circolo vizioso che, da quando combattiamo il terrorismo a suon di bombe e tiranni, lo ingrassa e lo moltiplica.
Ieri, dopo la dignitosa e straziante conferenza stampa della famiglia Regeni, c’era da attendersi finalmente una parola chiara e definitiva del governo italiano. Non è arrivata. Renzi, dal Nevada, twitta imbarazzanti autoscatti col caschetto e le scarpe gialle da capocantiere dell’Eni e dell’Enel. Gentiloni parla sul Corriere della Sera del delitto come se fosse avvenuto l’altroieri, non due mesi fa: “La pressione politico-diplomatica è un deterrente contro verità di comodo” (infatti l’Egitto ce ne ha già rifilate una decina), “se la collaborazione nelle indagini diventa sostanziale, ci sono le condizioni per avanzare sulla strada della verità” (ma in 66 giorni non c’è stata alcuna collaborazione e alcuna verità), “di fronte alla mancanza di collaborazione valuteremo le misure possibili” (e in questi due mesi di mancata collaborazione quali misure ha valutato?). I soliti gargarismi di un governo ostaggio di al-Sisi.
Ma c’è di peggio: la fu Unità, house organ del renzismo, intervista l’ex ambasciatore al Cairo Antonio Badini. Il quale dipinge al-Sisi come un buon samaritano che, su Regeni, non ci dorme la notte: “Vive un personale dramma, tra il riconoscimento di una verità scomoda e le ragioni che lui stesso ha imposto sull’integrità dell’apparato di sicurezza”. Fosse per lui, ce l’avrebbe già detto chi ha ucciso Giulio, ma purtroppo non può: “L’autorità centrale non deve conoscere incrinature”, né “deviare dall’obiettivo di contrastare il terrorismo”. E pazienza se Giulio era un ricercatore disarmato. Qualche mese fa il Cairo sterminò cinque turisti spagnoli scambiandoli per terroristi e anche allora “la sicurezza sapeva chi commise l’errore”, ma non lo disse per evitare “un’incidenza negativa sul morale dell’apparato”. Fortuna che la Spagna “non fece più di tanto per portare avanti le sue rimostranze e accettò le scuse”. Invece questi Regeni non si rassegnano: “Si insiste sulla trasparenza della dinamica dei fatti e dunque sulla verità”. E il dittatore soffre in silenzio, povera stella: “Al-Sisi ha affermato più volte che il suo sogno è quello di dare il benessere al popolo egiziano”. Quindi, se lo dice lui, è vero. È anche “un praticante della religione islamica e come tale ha un rapporto della sua coscienza con Dio”. Poi, vabbè, nel tragitto tra la coscienza e Dio, ogni tanto ci scappa un’ammazzatina di attivisti, una retatuccia di oppositori o giornalisti, una fossetta comune di desaparecidos, una torturella di detenuti. Ma che sarà mai. So’ creature.