31 marzo 2016
In morte di Gianmaria Testa
Andrea Laffranchi per il Corriere della Sera
Se ne è andato il ferroviere della canzone italiana. Gianmaria Testa è morto ieri ad Alba a causa di una grave malattia. Aveva 57 anni. I funerali saranno celebrati domani nel Duomo di Alba, a officiarli sarà don Luigi Ciotti, amico personale della famiglia. Era stato lo stesso Testa a parlare del proprio stato di salute che lo aveva costretto a cancellare i suoi concerti a dicembre dello scorso anno. E con un messaggio aveva preoccupato i fan: «Purtroppo i medici mi dicono che devo stare fermo altri due mesi. Mi attengo a quello che mi dicono e sono qui in video per farvi vedere che passerà, è solo questione di tempo».
C’era voluta la Francia per farcelo conoscere. Il primo album del cantautore, «Montgolfières», era stato pubblicato nel 1995 dalla Label Bleu e in Italia era arrivata solo qualche copia d’importazione. I nostri discografici non avevano creduto in lui. Si è dovuti arrivare al quarto album, «Valzer di un giorno», per avere un disco tutto italiano. E che Testa decise di vendere nelle edicole.
I primi riconoscimenti erano arrivati dall’Italia, da quel Premio Recanati che aveva vinto due volte di fila nel 1993 e nel 1994. Il cantautore raccontava di aver avuto contatti con qualche etichetta, ma che gli veniva richiesto di cambiare il proprio stile per renderlo più commerciale, più adattabile a radio e televisioni. «La divisa già me la metto quando sono in stazione», spiegava lui.
Chissà se non ci fosse stata Nicole Courtois, produttrice francese, che decise di lavorare con lui e lo portò fino a un concerto all’Olympia di Parigi nel 1997. Nel frattempo Testa non lasciava l’impiego alle Ferrovie: capostazione a Cuneo. Ferie e periodi di aspettativa gli servivano per incastrare tour e impegni in studio di registrazione. «Mio padre mi ripete che si può lavorare cantando ma non cantare per lavoro. E poi se perdessi il contatto con le mie cose quotidiane, avrei paura di perdermi», raccontava.
Soltanto nel 2007, quando la carriera era ben consolidata, aveva deciso di dare le dimissioni. «L’uomo a vapore» lo aveva soprannominato Erri De Luca con cui aveva messo in piedi alcuni spettacoli teatrali. E di collaborazione in carriera ne aveva fatte Testa: Paolo Fresu, Enrico Rava, Banda Osiris, Rita Marcotulli... Sempre in teatro aveva lavorato assieme a Paolo Rossi e Giuseppe Battiston. Negli ultimi anni aveva fatto anche un paio di incursioni nell’editoria per bimbi con delle canzoni-fiaba illustrate dalla matita di Altan.
Capelli ricci, occhialini tondi e baffetti, nei suoi testi c’erano storie ma anche impegno. Nel 2006 era uscito «Da questa parte del mare», un album sul tema delle migrazioni che ha vinto il Premio Tenco (e il 19 aprile uscirà per Giulio Einaudi Editore un libro dal titolo omonimo, fra autobiografia e biografie di altri). L’ultimo disco è «Men at work», registrato dal vivo durante alcuni suoi concerti.
Una professione parallela, le origini piemontesi, il successo in Francia, canzoni che raccontavano storie... Il paragone con Paolo Conte veniva automatico. Ma lui lo rifiutava. Era invece consapevole che il suo stile musicale fosse inchiodato a una certa tradizione di cantastorie: «Non mi interessa l’originalità, mi interessa esprimere qualcosa».
Ernesto Assante per la Repubblica
C’è chi scrive canzoni per la fama, chi per il proprio ego, chi per esibizionismo o per semplice diletto, chi per mettere in musica la propria poesia. E chi perché è alla ricerca della bellezza. Come Gianmaria Testa, scomparso ieri a Alba all’età di 57 anni dopo una lunga malattia annunciata nel maggio 2015. Bellezza da raggiungere con il lavoro, la fatica creativa, con la passione e l’impegno, lasciando che a parlare per lui fossero solo le canzoni.
Testa ha attraversato la canzone d’autore italiana in punta di piedi, con estrema eleganza, con modi gentili, senza mai cercare di vedersi riconosciuto niente di più del suo indubbio talento. Dalla metà degli anni Novanta a oggi ha prodotto dischi, concerti, spettacoli nei quali ha saputo, con intelligenza e passione, mettere a fuoco un universo musicale particolarmente personale. «Si inventava degli straordinari progetti tra letteratura e musica», ricorda Stefano Bollani, «aveva una passione letteraria non comune tra i musicisti, che abitualmente amano parlare di musica e non di libri. Lui, invece, è sempre stato potenzialmente uno scrittore oltre che un autore e un musicista, e questa sua completezza contribuiva a renderlo umanamente particolare ».
Cantautore e gentiluomo, leggero e affabile, sentimentale e pacato, Testa era dotato anche di un notevole senso dell’umorismo, «una caratteristica», dice Bollani, «che probabilmente ha sviluppato in Francia. Io l’ho conosciuto quando nel mondo francofono, in Francia e Canada, era già famoso prima di essere “scoperto” anche dagli italiani. Era sorprendente che l’avessero scovato prima lì. Questo l’ha aiutato a far crescere un senso dell’umorismo distaccato, perché continuava a fare il capostazione e poi andava a Parigi e riempiva i teatri. Ha avuto successo a quarant’anni e questo lo ha aiutato». Testa aveva lavorato come dirigente centrale operativo allo scalo ferroviario principale di Cuneo e solo dopo aver alternato a lungo l’attività con la musica aveva deciso di mollare il lavoro in ferrovia. Perché amava la musica, in particolare il jazz, per questo cercava musicisti con i quali collaborare: «Ci ha cercato lui, tutti quanti, Rita Marcotulli, Gabriele Mirabassi, Enrico Rava, Paolo Fresu, voleva collaborare, amava lo scambio di idee e il feeling del jazz», ricorda Bollani.
Di successo, anche se in ritardo, Gianmaria Testa ne ha avuto. Forse non tanto quanto avrebbe meritato ma quanto bastava per avere conferma pubblica delle sue doti, certificate da premi, riconoscimenti, folla ai concerti e dischi venduti. Ci ha lasciato nove album, uno dei quali, Da questa parte del mare, uscito giusto dieci anni fa, torna da noi tra qualche giorno contemporaneamente al primo libro per Einaudi, con lo stesso titolo: «È il racconto dei pensieri, delle storie, delle situazioni che hanno contribuito a dar vita a ognuna delle canzoni di quell’album e un po’ anche il racconto di me e delle mie radici», aveva scritto a febbraio, «quell’album uscì dieci anni fa e niente da allora è cambiato, semmai è peggiorato. Il nostro mare piccolo, il Mediterraneo, è diventato una coperta chiusa, un lenzuolo bianco a coprire occhi e membra».
I funerali avranno luogo domani nel Duomo di Alba, officiati da Don Ciotti, amico della famiglia.
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Gabriele Ferraris per La Stampa
È stata breve ma straordinaria, la vita felice di Gian Maria Testa. È morto ieri a 57 anni, e ne aveva già 37 quando una serie di inconsuete circostanze gli aprì la strada della popolarità. In vent’anni Gian Maria ha ottenuto ciò che tanti inseguono vanamente per tutta l’esistenza. Il successo, certo. Ma anche l’amore di una donna speciale. E - ciò che più conta - la saggezza. Gian Maria Testa era un cantautore, un poeta, un artista. Ed era un uomo saggio. Di quella saggezza contadina che gli ha consentito di affrontare gli applausi senza insuperbire, e la malattia senza tremare. Conservando sempre un misterioso sorriso. Adesso la lotta di Gian Maria Testa è finita. Lui non c’è più. Come sempre si dice, restano per tutti noi le sue canzoni.
A me resta la nostalgia di un amico e un uomo speciale. Ci eravamo conosciuti nel 1996 a Parigi. Su qualche giornale avevo letto che lo «chansonnier italien» Gian Maria Testa l’indomani avrebbe tenuto un concerto all’Olympia. All’epoca sapevo poco di questo capostazione di Cuneo che scriveva canzoni bellissime, e in Francia era molto amato, mentre da noi non se lo filava nessuno. Così mi venne voglia di conoscerlo. Ci demmo appuntamento in un bistrot al Marais, la mattina del gran giorno del concerto all’Olympia. E andai a incontrare questo capostazione di Cuneo che si preparava a salire sul palcoscenico dell’Olympia immaginando che avesse addosso una strizza del diavolo.
Gian Maria Testa non dava l’impressione di aver addosso una strizza del diavolo. Lui poi mi ha confessato che ce l’aveva. Però la nascondeva molto bene dietro i baffi stropicciati. Non mi dava neppure l’impressione di essere un capostazione. Ma questo dipende dal fatto che i capistazione me li sono sempre immaginati con il berretto rosso. Lui me lo ha anche mostrato, il berretto rosso, per cui ho la certezza che all’epoca era davvero un capostazione. Ha lasciato quel mestiere molto tempo dopo: da buon cuneese di sangue contadino prima di convincersi a mollare il posto fisso in ferrovia s’è fatto anni di vita d’inferno, la notte i concerti e la mattina il lavoro, che si sa come vanno le cose nel mondo dello spettacolo, oggi sei una stella e domani ti cerca più nessuno...
Ad ogni modo: quella mattina nel bistrot del Marais parlammo a lungo di varia umanità, e poco di musica. Parlammo molto in piemontese, e ci pareva di essere la versione nordista di Totò e Peppino a Parigi. Fu una mattina piacevole. E la sera, all’Olympia, fu un trionfo. Io poi scrissi un lungo articolo raccontando la storia del capostazione all’Olympia, e subito dopo Enzo Biagi lo intervistò al «Fatto» e Gian Maria Testa divenne popolare anche in Italia.
Da quel giorno sono passati vent’anni, ed è stato bello ascoltare, in questi vent’anni, i dischi e i concerti di Gian Maria Testa. Non tantissimi, i dischi. Ma tutti necessari, precisi. Canzoni che raccontano la vita, i sentimenti, ma anche i drammi del nostro presente. Gian Maria aveva in sé una passione civile vera, una compassione profonda per l’umanità che soffre e che lotta. Nel nostro tempo sbandato, lui non s’è tirato indietro. Senza clamori né ostentazioni, affrontava nelle sue canzoni temi come l’immigrazione e le nuove povertà, che oggi non vanno in classifica. Gian Maria se ne fregava, delle classifiche. Faceva ciò che gli sembrava giusto; e perché gli sembrava giusto.
Certo, è stato un uomo fortunato: ha avuto un dono, e ha saputo metterlo a frutto. Ma dietro ad ogni uomo fortunato c’è sempre una donna intelligente e innamorata. Sua moglie Paola, manager di talento, ha inventato per lui spettacoli memorabili, affiancandogli i nomi più belli della musica e del teatro italiani, da Enrico Rava a Erri De Luca, e portandolo sui più importanti palcoscenici d’Europa e d’oltre Oceano.
L’ultima volta li avevo incontrati, lui e Paola, a Sarzana, al Festival della Mente, in settembre. Domandai come andava. Bene, mi disse lui, bene, sono un po’ affaticato ma resisto. Ci abbracciammo. Gli dissi che la prossima volta l’avrei rivisto sul palco. Sapevamo che non era vero. Ma era bello crederlo.
Andrea Scanzi per il Fatto Quotidiano
È difficile scrivere della morte di Gianmaria Testa. Ed è difficile non solo per il dolore, fatalmente enorme di fronte a una scomparsa così anticipata. È difficile anche perché, in quell’equilibrismo faticoso che tocca inseguire per non essere retorici quando si racconta la storia di chi non c’è più e vorresti ci fosse ancora, non essere troppo sentimentali è dura. Non è che Testa lo si racconti ora garbato e dotato, disponibile e semplice perché non ci sia più: lo si racconta così perché era così. E bastava poco per capirlo: lo capivi subito. In tanti lo eternano già come “il cantautore degli ultimi”, immagine che ricorda quella con cui ancora adesso si cristallizza Fabrizio De André, uno dei suoi maestri, morto pure lui troppo presto: neanche 59 anni Faber, neanche 58 Gianmaria. Nato a Cavallermaggiore il 17 ottobre 1958, “da quella parte sbagliata del Tanaro dove non si fa il Barolo ma l’Arneis”.
Morto ieri mattina ad Alba, la città in cui abitava da tempo e il luogo per sempre di Beppe Fenoglio. Nel settembre scorso, per la maratona dedicata allo scrittore albese, c’era tanta gente. Chi per ascoltare, chi per leggere qualcosa dell’uomo che si fece Johnny e si fece Milton. C’era Giorgio Conte, fratello di quel Paolo a cui Testa veniva accostato spesso, un po’ a ragione e un po’ no, e non si è mai capito quanto a Gianmaria facesse poi piacere quell’accostamento costante. C’era la moglie Paola Farinetti, sorella di Oscar, compagna premurosa e manager protettiva, che gli è stata accanto fino alla fine. Testa, alla maratona fenogliana, non c’era. Era stanco. Stanco della malattia. Ma ci aveva provato. Ci ha sempre provato: fino all’ultimo.
La lezione alla Scuola Holden di Torino a fine luglio, gli incontri pubblici, i concerti sognati. Aveva scoperto per caso la malattia, allarmato da qualche sintomo e stimolato a farsi visitare anche da Paolo Rossi, uno dei tanti amici artisti con cui ha collaborato. Erri De Luca, nella prefazione della biografia-testamento in uscita il 19 aprile prossimo per Einaudi (Da questa parte del mare), ha scritto: “Ciao socio, compare, fratello che non mi è capitato in famiglia e che ho cercato intorno, grazie di accomunarmi al libro della tua vita”. E ieri: “Non ci abbracceremo più, ma lo abbiamo fatto 1000 volte. Il mio braccio ha lo stampo della tua spalla”. In una intervista prodigiosa e dolente del maggio scorso, Testa si era raccontato all’amico Michele Serra su Repubblica: “Ho un tumore, l’ho scoperto ai primi di gennaio. Non è operabile. Ho fatto cinque cicli di chemioterapia, il tumore si è molto ridotto. Ma i medici mi hanno detto che nei prossimi mesi devo annullare ogni altro impegno che non sia curarmi. Avere cura di me. Ed è quello che sto facendo”. Poi: “Sei costretto a convivere con un corpo estraneo, non sei più solo, sei in due. Ma si può reagire, si può guarire, e soprattutto si può rimanere pensanti. È così che cerco di fare io (…) Mi mancano i concerti, mi manca moltissimo suonare e cantare. Lo faccio piano, da solo. Di notte, così non do fastidio. Penso molto alla musica e alle canzoni, ci penso continuamente. È come se mi rendessi conto solo adesso che erano parte integrante del mio vivere”.
Infine: “Io sono tranquillo. Torno. Se il tempo è galantuomo, guarisco e torno”. Gianmaria Testa lascia molte canzoni, ora in studio e ora live. Gemme scoperte subito in Francia (era di casa all’Olympia), in Germania e pure a New York. L’Italia, invece, deve ancora apprezzarlo appieno, appesantita da quella pigrizia atavica che l’ha portata spesso a definirlo distrattamente “cantautore ferroviere”.
Essenziale in musica e in vita, arricchito da un’empatia sincera verso gli ultimi che fece scattare un’amicizia definitiva con il grande Jean-Claude Izzo. Semplice come solo può esserlo un uomo di Langa che ama il vino, i partigiani e la malora. Cantante senza fronzoli e paroliere ispirato, dal vivo dava il meglio di sé. Ha scritto anche libri per bambini, intrisi di tenerezza intatta. Il primo disco è del 1995, l’ultimo (un doppio live: e che live) del 2013. Bello muovercisi dentro, perché dove cogli cogli bene. Testa era sempre se stesso: cantautore classico. Elegante e militante. Coi suoi personaggi sbandati e dimenticati (ma non da lui), in cerca di un’appartenenza autentica e di una collettività che restituisse dignità a una vita spesso carogna. Non si arrendeva, Gianmaria: inseguiva il guizzo. Lo scatto. Il riscatto. E noi con lui.