la Repubblica, 31 marzo 2016
Tata venderà tutti i suoi stabilimenti di acciaio in Gran Bretagna. Un bel problema per gli inglesi
La rivoluzione industriale, nata due secoli e mezzo fa in Gran Bretagna, aveva due motori: il carbone e l’acciaio. L’ultima miniera di carbone britannica ha chiuso lo scorso anno. Adesso rischiano di scomparire anche le acciaierie. Il gruppo indiano Tata, che aveva acquistato nel 2007 Corus, la società creata dalla fusione fra British Steel e l’azienda rivale olandese, ha annunciato che intende vendere tutti i suoi stabilimenti nel Regno Unito. A patto, naturalmente, di trovare compratori: altrimenti, fa capire il conglomerato di Mumbay, le fabbriche dell’acciaio potrebbero anche chiudere. Ipotesi che mette direttamente a rischio 15 mila lavoratori e altri 60 mila considerando fornitori e indotto: per ogni posto di lavoro nelle acciaierie ce ne sono quattro nell’economia locale. Una mazzata per la ripresa economica britannica, più fragile di quanto dicano le cifre del Pil. E una catastrofe dal punto di vista simbolico, dunque politico: il Paese in cui è sbocciata la rivoluzione industriale potrebbe formalmente seppellirla con un secondo funerale, per l’acciaio, dopo quello mestamente celebrato per il carbone.
A rendere ancora più amaro il boccone contribuisce il fatto che, a spegnere per così dire la luce, sia un gigante industriale dell’India, la stessa Tata che ha rilevato due brand storici dell’industria automobilistica inglese, Jaguar e Land Rover. Come in un contrappasso dantesco, l’ex-colonia non solo è diventata così ricca da prendersi i pezzi pregiati dell’Impero: ora è Mumbay che fa venire la tremarella a Londra, annunciando la dismissione delle acciaierie. Non che l’India abbia fatto poco per salvare l’acciaio britannico. La Tata ha investito un miliardo di sterline nelle acciaierie di Sua Maestà. La maggiore delle quali, Port Talbot, nel Galles, perde tuttavia un milione di sterline al giorno. Tre le ragioni del declino: il dumping di paesi come Cina e Russia, che vendono acciaio sui mercati internazionali a prezzi più bassi di quelli di produzione; le tasse a cui è sottoposta l’industria in Gran Bretagna per dispendio energetico e danni ambientali; e il rallentamento della locomotiva cinese, che fa calare la domanda in tutto il mondo.
La Tata aveva già tagliato 1000 posti di lavoro da Port Talbot in gennaio e 3 mila l’anno scorso: in tutto, dal ’97, l’industria britannica dell’acciaio ne ha persi 20 mila. Nei mesi scorsi il gruppo indiano ha venduto tre acciaierie più piccole a un fondo di investimenti e al governo scozzese. Ma l’annuncio ha preso in contropiede il governo di David Cameron. Il ministro del Business Sajid Javid ha interrotto un viaggio in Australia per rientrare in patria e precipitarsi a Port Talbot a manifestare solidarietà e impegno alla ricerca di una soluzione. Prima di lui ci è arrivato Jeremy Corbyn, il leader laburista, che ha chiesto al governo di salvare le acciaierie a ogni costo. «Sono una parte strategica della nostra economia», riconosce Javid: senza acciaierie, la Gran Bretagna dovrebbe comprare acciaio all’estero per fabbricare armi, situazione in cui non si è mai trovata. Si parla perfino di nazionalizzazione, un tabù dai tempi della Thatcher: magari mascherata da sussidi e facilitazioni fiscali, comunque Londra farà ponti d’oro a chi offre una stampella per tenere in piedi il suo storico acciaio. Ma a Port Talbot, dove “The Abbey”, l’Abbazia, com’è soprannominata la fornace, gli operai temono di assistere alla fine di un’epoca.