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 2016  marzo 31 Giovedì calendario

Mafia, blitz nel trapanese. Finisce in manette anche il costruttore anti-racket

Ai convegni diceva: «Bisogna avere il coraggio di denunciare la mafia». L’imprenditore del calcestruzzo Vincenzo Artale si vantava di essere diventato un simbolo nella terra del superlatitante Matteo Messina Denaro: «Io il coraggio l’ho avuto – ripeteva – nel 2006 ho denunciato chi voleva farmi pagare il pizzo».
E il ministero dell’Interno l’aveva pure risarcito, con 250 mila euro.
Ma, intanto, i nuovi boss di Castellammare del Golfo, quelli che contavano per davvero, avevano iniziato a sponsorizzare il calcestruzzo di Artale, imponendolo alle ditte che facevano lavori pubblici e privati nella provincia di Trapani. Insomma, il calcestruzzo di uno dei fondatori dell’associazione antiracket di Alcamo era ormai affare di mafia. Ed era pure cemento depotenziato, il sospetto del procuratore capo Francesco Lo Voi è che sia stato utilizzato per ristrutturare il viadotto Cavaseno, lungo l’autostrada Palermo-Mazara.
«È una storia emblematica, questa – dice il procuratore aggiunto Teresa Principato, che ha coordinato l’indagine con i sostituti Francesco Grassi e Gianluca De Leo – ancora una volta le intercettazioni hanno svelato che l’antimafia di maniera può essere uno schermo perfetto per mascherare scalate imprenditoriali all’ombra della mafia». Così, aveva fatto Artale, il padroncino di una betoniera che all’improvviso diventa il ras del cemento. Fino a ieri mattina, quando è stato arrestato dai carabinieri. Nel 2006, quella betoniera gli era stata distrutta da un incendio, era stata presa di mira anche la profumeria della moglie, e lui aveva puntato il dito contro alcuni piccoli mafiosi. Ma i boss veri si era ben guardato dal denunciarli. Perché sarebbero diventati presto i suoi sponsor. E gli stessi mafiosi avevano capito l’opportunità.
D’altro canto, anche Mariano Saracino, il nuovo boss di Castellammare arrestato ieri assieme a tre fedelissimi, è sempre stato maestro di doppi giochi: fino al 2000 è uno stimato imprenditore del calcestruzzo, poi al processo per l’attentato al giudice Carlo Palermo offre un falso alibi al capomafia Gioacchino Calabrò, gli va male, e viene arrestato in aula. Tornato in libertà, a fine 2012, stringe un patto con Artale. «Si era creato un vantaggio reciproco – spiega il colonnello Stefano Russo, il comandante provinciale dei carabinieri di Trapani – quella convergenza di interessi che continua ad essere ancora oggi il terreno di incontro fra l’organizzazione mafiosa e il mondo dell’impresa». Metodo antico, ma con un volto nuovo. L’antimafia.
Ma il sistema è crollato quando alcuni imprenditori hanno deciso di denunciare i ricatti. Artale non si dava per vinto, aveva provato a fare un’altra denuncia. Ma ormai non gli credeva più nessuno.
Salvo Palazzolo
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Avvolti nelle bandiere dell’Antimafia fanno quello che sanno fare meglio. Si nascondono. Con una mafia che non spara più e con un’antimafia sociale spompata e ormai incapace di riconoscere i propri nemici, loro si sentono al riparo. Promuovono attività antiracket, firmano inutili protocolli di legalità, sottoscrivono codici etici, tengono banco a conferenze e dibattiti sul pizzo, battono cassa nelle prefetture per avere risarcimenti come vittime del crimine. Poi prendono ordini dal capo di Cosa Nostra del loro territorio. Questo Vincenzo Artale arrestato ieri dai carabinieri vale come una conferma, è un’altra prova di quella che è l’«evoluzione» della specie mafiosa. La mafia che si traveste. Un po’ strategia per infiltrarsi nelle fila avversarie e un po’ necessità di adattarsi ai tempi, la mafia che si impossessa delle parole d’ordine dei propri rivali, la mafia che ha cercato e trovato il suo luogo più sicuro: l’Antimafia. Lo storico Rocco Sciarrone nel suo ultimo libro, Alleanze nell’ombra, ha scoperto che le imprese top della connection mafiosa nella provincia di Palermo sono tutte iscritte ad associazioni antiracket. Solo chi si gira dall’altra parte, può ancora credere che in Sicilia ci sia stata una «rivoluzione» imprenditoriale. Hanno solo cambiato vestito. In tivù danno lezioni di antimafia, in segreto con la mafia si arricchiscono. I più importanti costruttori siciliani, i catanesi Mimmo Costanzo e Concetto Bosco Lo Giudice, osannati sulla stampa specializzata, portati ad esempio dalla classe politica siciliana più pittoresca o trasformista, dopo avere combattuto ufficialmente le loro «battaglie di legalità» («Ho capito che senza una liberazione dalla mafia, la Sicilia non avrà un futuro economico», parola di Costanzo) si è scoperto che il loro impero era Cosa Nostra. Gliel’hanno sequestrato un mese fa: era in mano agli eredi dei Santapaola. Gente di Cupola. E neanche un paio di settimane fa hanno incastrato un altro «campione» dell’antiracket, Carmelo Misseri di Floridia, provincia di Siracusa, presidente della banca fidi dei costruttori siciliani. Anche lui si esibiva pubblicamente («Non si può convivere con la paura, bisogna ribellarsi») e intanto pagava tangenti ad Antonella Accroglianò, la Dama Nera dell’Anas. Non sono più casi isolati, è una rete che si è andata allargando anno dopo anno ed è diventata «sistema». Già dieci anni fa il boss Antonino Rotolo aveva dato l’autorizzazione a uno dei suoi ad infiltrarsi dentro Addiopizzo, già dopo le stragi il vecchio Provenzano aveva concesso ai suoi amici di Villabate di organizzare una manifestazione in onore di Raul Bova, l’attore che in una fiction interpretava Ultimo, il capitano che prese Totò Riina dopo una lunghissima latitanza. Se tutti diventano antimafia, la mafia si adegua. Come non ricordare Roberto Helg, il presidente della Camera di Commercio di Palermo,catturato in diretta e filmato dalle telecamere mentre intascava una tangente da 100 mila euro da un pasticcere. Un regalo per fargli aprire bottega all’aeroporto di Palermo. Anche Helg condannava a parole «la piaga delle estorsioni» per poi praticarle. Ma l’affaire più scabroso di tutti rimane quello di Antonello Montante, il rappresentante per la legalità di Confindustria nazionale indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Pochi mesi prima era stato designato dal ministro dell’Interno Alfano all’Agenzia dei beni confiscati, l’uomo giusto al posto giusto. L’inchiesta sul suo conto, che è vicina alla conclusione, ipotizza che Montante «abbia messo in modo continuativo a disposizione della “famiglia” di Serradifal- co la propria attività imprenditoriale» per un quarto di secolo, che abbia avuto il «sostegno» dei boss per «il conseguimento di cariche e nomine all’interno di enti e associazioni», che «abbia creato risorse economiche occulte da destinare, in tutto o in parte, ad esponenti della criminalità organizzata», che «abbia posto in essere una sistematica attività di dossieraggio» contro possibili testimoni del suo doppio gioco. Difeso dal presidente Giorgio Squinzi, sostenuto dai silenzi del suo compagno di avventura Ivan Lo Bello, il volto della legalità di Confindustria resta sempre lui, Antonello Montante. Tutto molto misterioso. E lui, un indagato di mafia, insieme a un governatore – Raffaele Lombardo – condannato per reati di mafia, furono gli ideatori dell’istituzione della prima e unica «zona franca della legalità» d’Italia, la provincia di Caltanissetta. Solo una coincidenza?
Attilio Bolzoni