Il Sole 24 Ore, 30 marzo 2016
L’America rallenta
Da un mese, la Fed sta osservando un rallentamento nella crescita americana. La presidente Yellen ne attribuisce le cause alle difficoltà cinesi e al calo del prezzo del petrolio. Ma trapela il timore che una recessione possa sfiorare anche gli Usa. Per questo Yellen ieri ha sorpreso per i toni preoccupati e ha annunciato cautela nel ritorno a tassi d’interesse normali. Difficilmente questo darà serenità a famiglie e investitori. La Fed è imbrigliata in un dilemma tra tassi troppo bassi e crescita debole. In ogni caso, se l’economia frena, riconosce Yellen, la Fed non potrà far molto una volta azzerati i tassi.
Chiunque visiti la Silicon Valley in California o Cambridge in Massachusetts in questo periodo fatica a credere che il volano produttivo americano si sia inceppato. Al contrario, un recente sondaggio dei top manager delle prime 500 imprese americane rivela che la loro principale preoccupazione è di riuscire a tenere il passo con un cambiamento tecnologico vorticoso. Eppure gli effetti sulla crescita americana non sono più chiaramente visibili. La produttività americana resta bassa, probabilmente dimezzata rispetto agli anni Novanta che stanno diventando un luogo della nostalgia o almeno il riferimento standard per il benessere delle famiglie americane.
La stessa presidente della Federal Reserve, Janet Yellen, ha definito quel periodo «il decennio favoloso». La disoccupazione scendeva sotto il 4% mentre la quota di americani che lavoravano attivamente aumentava, la produttività cresceva spingendo al rialzo anche il livello dei salari e interrompendo, per un breve periodo, l’esplosione della diseguaglianza nella società americana. Guardando oggi a quel periodo si capisce più facilmente il clima acrimonioso che si avverte tra gli americani. Da un lato si spiega per quale ragione Donald Trump stia costruendo la sua temeraria avventura politica sull’insoddisfazione dei lavoratori della “rust-belt” e, dall’altro lato, perché la California progetti l’aumento del salario minimo orario a 15 dollari, mentre entrambi i partiti frenano sugli accordi commerciali globali che fino a ieri promuovevano.
Continua pagina 4 Carlo BastasinContinua da pagina 1 L’intenzione di Janet Yellen era di dare la giusta intonazione alle aspettative di mercato in vista di un possibile rialzo dei tassi d’interesse americani in aprile o in giugno. Ma nel contesto politico surriscaldato di oggi non c’è modo che le indicazioni della Fed non entrino in una lettura politica e strutturale del futuro dell’economia e della società americana.
La grande recessione ha lasciato tossine nel sistema produttivo, si investe meno e c’è stato un deterioramento nella qualità della forza lavoro. Nell’intera economia globale, il livello degli investimenti è la metà di quello che sarebbe augurabile, ma sorprende che ciò avvenga anche negli Stati Uniti. Certamente pesa qualche problema di misurazione in un’economia che sta diventando sempre più immateriale. La qualità delle nuove tecnologie mediche o le agevolazioni offerte da nuove app nella vita quotidiana sfuggono alla misurazione standard del reddito. Quello che non sfugge è tuttavia che il tradizionale meccanismo di distruzione creativa attraverso il quale le imprese più innovative sostituiscono quelle più tradizionali sembra essersi incagliato. Come altrove, le imprese alla frontiera risentono del rallentamento globale, mentre le altre fanno profitti tagliando i costi, compresi quelli del lavoro, o con sussidi pubblici o aggirando le leggi sulla concorrenza.
Per la Fed si tratta di un dilemma. Per incoraggiare i guadagni di produttività – necessari ad alzare il tasso di crescita e il livello dei redditi – è tentata di alzare i tassi d’interesse, in modo da scremare gli investimenti meno produttivi e i posti di lavoro a basso costo a favore degli altri. Ma se non vuole punire la parte più dinamica dell’economia americana, quella esportatrice, deve evitare che il dollaro si apprezzi e quindi deve mantenere tassi d’interesse relativamente bassi.
Mentre in Europa la paura di investire e di consumare dipende direttamente dallo shock di sfiducia causato dall’euro-crisi, negli Stati Uniti c’è un senso ancora più politico dell’incertezza sul futuro della società: l’aumento della diseguaglianza corrisponde all’attenuarsi delle speranze individuali di ascesa sociale. Insieme, queste due espressioni di disagio creano incertezza politica in un anno di grandi decisioni. A loro volta le elezioni americane e altre consultazioni elettorali o referendarie rappresentano fonti di rischio per le economie globali. Ma la risposta politica, maggiori investimenti globali e contenimento delle diseguaglianze, non fa parte degli obiettivi, né delle possibilità, della Fed.