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 2016  marzo 30 Mercoledì calendario

Primo Levi si racconta a Giovanni Tesio. Battaglie, barriere e amori in un’intervista rimasta sino a ora inedita

Estratto pubblicato su la Repubblica

«Io mi ritengo uno che ha combattuto parecchie battaglie. Che ne ha perse alcune e ne ha vinte altre. Devo avere una certa forza profonda, perché sono sopravvissuto ad Auschwitz, questa è una grossa battaglia. Anche come chimico ho sopportato sconfitte, ma ho vinto parecchie volte. Poi, come scrittore. Mi sono ritrovato a diventare uno scrittore quasi mio malgrado, ho aperto un capitolo nuovo. Mi è venuta addosso a scalini, prima in Italia e poi all’estero, questa ondata di successo che mi ha squilibrato profondamente, mi ha messo nei panni di qualcuno che non sono io».
(...) Non hai mai sentito il peso di un’eventuale sconfitta, cioè di non farcela? Con una materia così sfuggente come la scrittura, insomma, come ti sei trovato? Il dover scrivere? Il doverlo fare?
«Lo provo adesso il peso, ma prima no. Ho sempre scritto abbastanza sicuro di me, anche perché la critica mi ha appoggiato, perché facevo leggere queste cose ai miei amici che me le lodavano, perché le vendite andavano bene, perché l’editore era soddisfatto. Non mi sono quasi mai sentito uno scrittore perdente, anzi sono tuttora molto stupito del fatto di esserci riuscito, di avercela fatta anche senza la grinta».
Come un fatto naturale…
«È un fenomeno al di fuori di me. Io scrivo un libro e poi il libro va per la sua strada, decolla, segue itinerari complicati, intricati. Se questo è un uomo ha un itinerario talmente intricato che non riesco a seguirlo e continua ancora adesso (...)».
Però, si direbbe che questa nuova professione abbia stravolto qualcosa di te, in te. Non hai detto tu stesso di esserti sentito bifronte, almeno finché hai fatto i due mestieri?
«Certo».
(...) Come facevi praticamente?
«Tagliavo il tempo in due: c’era il tempo della fabbrica in cui la letteratura non c’entrava per niente, e poi il dopo: le lettere a cui rispondevo, le sere passate a scrivere».
(...) A volte nelle tue opere questo tuo limite si avverte. Come se esistesse una sorta di barriera al di là della quale tu non riesci ad andare.
«Non voglio andare».
Lo dico nel modo meno tortuoso: come se tu mancassi
di cordialità.
«Non lo so, non me ne rendo ben conto».
Una sorta di resistenza…
«Certamente c’è. Ce n’è traccia – questo te lo posso anche dire – nelle prime pagine di Se questo è un uomo. Si accenna a una donna, io questa donna l’ho corteggiata a modo mio, mettendola molto in imbarazzo, perché si rendeva conto della mia estrema timidezza e irresolutezza. Siamo stati catturati insieme, anzi in un modo abbastanza banale. Eravamo nascosti nel Col di Joux, siamo scesi insieme per non so quale missione politica e ci è stata offerta l’ospitalità a valle per non risalire di notte. Noi abbiamo rifiutato, non mi ricordo bene per quale ragione, e siamo saliti di notte fino al Col di Joux e dopo cinque ore, dopo una notte, siamo stati arrestati e io ho portato sovente un senso di colpa».
Per avere favorito involontariamente l’arresto?
«In più questa donna ha tentato il suicidio per non farsi deportare, si è tagliata le vene, poi se le è fatte ricucire. Insomma, io ho portato il peso di questa morte – perché poi è morta – fino a quando non ho incontrato la mia attuale moglie. Per me era proprio una situazione disperata, essere innamorato di una persona che non c’era più, in più averne provocato la fine e questo penso che si senta… Forse se fossi stato meno inibito con lei, se fossimo scappati insieme, se avessimo fatto l’amore… Io di queste cose non ero capace».
(...) L’incontro con tua moglie, ad esempio, lo puoi raccontare?
«Certo, mi va di raccontarlo. È stata una questione, direi, di secondi, più che di minuti. La conoscevo già, era un’amica di mia sorella».
La conoscevi da prima della deportazione?
«Sì, da prima della deportazione, una delle tante amicizie di mia sorella. Siamo stati a ballare insieme e, nel giro di pochi secondi, ci siamo accorti di una mutazione profonda, improvvisa, la caduta di questa barriera di inibizione, grazie a lei soprattutto, che mi ha fatto parlare, che è stata paziente con me, è stata comprensiva, è stata affettuosa e nel giro di pochi minuti...».
Dove eravate andati a ballare? Te lo ricordi?
«Non mi ricordo più, probabilmente alla scuola ebraica».
(...)Ed è stata una cosa improvvisa e sconvolgente.
«Sì, improvvisa e sconvolgente».
(...) E ti ha reso euforico.
«Mi ha reso euforico, realizzato, aperto, allegro, pieno di voglia di lavorare, una doppia vittoria, mi sentivo il padrone del mondo».

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Estratto pubblicato su La Stampa

Da ragazzo
ho pensato al suicidio

Le confessioni dello scrittore in una conversazione inedita registrata nell’87 poco prima della fine: la crisi adolescenziale, le difficoltà nei rapporti con il mondo, i traumi oltre il Lager

Giovanni Tesio

Torniamo ancora un poco sull’amicizia. Sentivi la differenza dell’amicizia maschile e di quella femminile? 
«Qui tocchi un tasto molto delicato, perché io ero un timido, un timido patologico, per cui avevo delle amicizie femminili, ma si fermavano lì. La mutazione, il salto della barricata è arrivato per me estremamente tardi, dopo Auschwitz. È un argomento di cui parlo con un certo imbarazzo, una certa difficoltà. Sta di fatto che io ero un inibito, lo si vede dalle cose che ho scritto. Io ero fortemente inibito, anche per via delle campagne razziali, perché era un taglio netto. Molte ragazze, con le buone, senza offendere, si allontanavano, ma io cercavo proprio quelle con cui non potevo avere rapporti». 

Cercare chi ti respinge?
«Forse sì, ma io questo lo lascio agli altri. Di fatto ho avuto parecchie amicizie femminili, ma nessuna è sfociata in amore». 

Neanche con la compagna d’università con cui - ne hai parlato sotto mentite spoglie nel Sistema periodico- vi scambiavate le letture?
«Neanche. Cioè, sì. Io ne ero vagamente innamorato, ma in modo estremamente casto».
E ne soffrivi?
«Sì, ne soffrivo tremendamente, soffrivo in modo pauroso perché vedevo tutti i miei amici che ci passavano da questa esperienza, avevano esperienze anche sessuali. Io no e ne ho sofferto in un modo spaventoso, fino a pensare al suicidio». 
Forse anche perché avevi compagni che esibivano fin troppo i loro trofei…
«Certo. Qualcuno andava al casino, ci andava con la tessera falsa. Io non avrei mai fatto una cosa simile». 
Amicizie femminili che siano durate nel tempo?
«Oh, parecchie, sì, parecchie. C’è stata, per esempio, quella della ragazza del Fosforonel Sistema periodico. È tuttora mia amica. Ma è proprio un periodo, questo, di due o tre anni, in cui le amicizie si sono sfaldate». 

Perché?
«Per ragioni diverse. Intanto per le mie ragioni, vicissitudini familiari, per cui mi muovo poco, e poi… chi muore, chi si ammala, chi perde interesse per la vita… È un capitolo che sta estinguendosi».
Il sentirsi invecchiare è questo?
«Sì». 
Vedersi corrodere l’ambiente che ti sta intorno?
«Sì, questo è molto doloroso, molto doloroso e irreversibile». 

Ma tu nel complesso ti giudichi una persona di natura vincente?
«Mah! Io mi ritengo uno che ha combattuto parecchie battaglie. Che ne ha perse alcune e ne ha vinte altre. Devo avere una certa forza profonda, perché sono sopravvissuto ad Auschwitz, questa è una grossa battaglia. Anche come chimico ho sopportato sconfitte, ma ho vinto parecchie volte. Poi, come scrittore. Mi sono ritrovato a diventare uno scrittore quasi mio malgrado, ho aperto un capitolo nuovo. Mi è venuta addosso a scalini, prima in Italia e poi all’estero, questa ondata di successo che mi ha squilibrato profondamente, mi ha messo nei panni di qualcuno che non sono io». 
Quello dello scrittore è il mestiere più pesante?
«Più pesante?».
Sì, questa è la domanda.
«Come effetti senza dubbio sì. Come fatica e durata direi di no, perché ho scritto i miei libri generalmente volentieri, in modo facile, senza sentirne il peso».