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 2016  marzo 30 Mercoledì calendario

Anche senza l’aiuto di Apple, l’Fbi ha sbloccato l’iPhone del terrorista di San Bernardino. Per riuscirci è andata in Israele

New York Trovata la chiave: l’Fbi sblocca l’iPhone di uno dei terroristi di San Bernardino. E con una mossa pragmatica il governo degli Stati Uniti ritira la causa contro Apple, o sarebbe meglio dire contro la Repubblica autonoma di Apple, che si era rifiutata di collaborare. Tutto ciò accade nello stesso giorno in cui gli investigatori belgi chiedono aiuto ai colleghi americani per decrittare i codici di accesso ai laptop e ai telefonini, recuperati nelle operazioni anti-terrorismo seguite agli attacchi di Bruxelles. Non è una coincidenza. È ormai evidente come un’indagine su larga scala debba impadronirsi dei possibili indizi custoditi nei pc e nei cellulari. Probabilmente lo scontro tra autorità pubblica e industria tecnologica è solo rimandato. L’amministrazione di Washington, in questo caso, ha preferito rinunciare, anche se Melanie Newman, portavoce del Dipartimento della Giustizia, ha chiarito: «Per noi resta una priorità ottenere quelle informazioni digitali che risultano cruciali per garantire la sicurezza pubblica. Lo faremo con la cooperazione delle parti in causa, o attraverso i tribunali se questa cooperazione non dovesse essere possibile». Istruttiva la replica di Apple affidata a un comunicato: «Apple ritiene che il popolo degli Stati Uniti e del mondo intero meriti la protezione dei dati personali, la sicurezza e la privacy. Sacrificare una cosa per l’altra espone le persone e i Paesi a rischi ancora più grandi». Come si vede la società californiana, guidata da Tim Cook, non solo si sente autorizzata a interpretare e a sistemare gerarchicamente i diritti costituzionali. Ma ora parla addirittura a nome «del popolo degli Stati Uniti e del mondo intero», senza spiegare a che titolo, senza dire chi e quando gli abbia mai affidato questo mandato.
L’Fbi non poteva aspettare i tempi della giustizia e gli sviluppi di una causa che, secondo gli esperti, sarebbe potuta arrivare fino alla Corte Suprema. Nell’attentato del 2 dicembre scorso, a San Bernardino in California, furono assassinate 14 persone e ferite 22. I due killer, Syed Rizwan Farook e la moglie Tashfeen Malik, cittadini americani di origine pachistana, si erano ispirati al martirio dei jihadisti. Una cellula isolata? Oppure il nodo di una rete ancora da scoprire? Domande fondamentali e, soprattutto, urgenti.
L’Fbi ha ottenuto la collaborazione di Cellebrite, una società israeliana specializzata in sicurezza digitale. Apple ha già fatto sapere che, a maggior ragione, continuerà il lavoro di ricerca per migliorare l’inviolabilità dei dati.
Giuseppe Sarcina

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Su Twitter da giorni quelli della Cellebrite gongolano. Non smentiscono e non confermano. Ma per i media israeliani sono loro ad aver «bucato» l’iPhone del killer di San Bernardino. «Cat’s out of the bag (Qualcuno ha cantato, ndr)», ha risposto su Twitter a chi gli chiedeva conto dei rumors Shahar Tal, direttore delle ricerche forensi dell’azienda, con l’aria di uno che si sta divertendo molto.
Al di là delle battute, sono altri gli indizi che portano dritti al colosso israeliano della cyber investigazione. Fondata nel 1999 a Petah Tikva, nella Silicon Valley israeliana, la Cellebrite «è la numero uno al mondo nell’estrazione di dati da smartphone», spiega Paolo Dal Checco, consulente informatico in ambito forense. Non è raro infatti che tribunali e polizia si avvalgano di aiuti esterni per craccare i device dei sospettati e degli imputati (è successo anche in Italia con Hacking Team). L’obiettivo è portare in Tribunale prove certificate e meno attaccabili. Facile dunque che l’Fbi per accedere al contenuto dello smartphone di Syed Farook si sia rivolta alla «migliore».
Ma c’è di più. Andando a consultare il database della procura federale statunitense (il cui contenuto è pubblico) si scopre come dal 2009 a oggi l’Fbi abbia affidato alla Cellebrite ben 187 incarichi. In genere le fatture per i servizi resi si aggirano intorno ai 10 mila dollari. Ma quella emessa due giorni fa è ben più alta: 218 mila dollari. Una pistola fumante dunque? «Non necessariamente. Ma diciamo pure che tutto lascia pensare che siano stati loro», sottolinea Dal Checco. E se dall’azienda israeliana non arrivano commenti, a giocare a favore della tesi Cellebrite è anche «lo stretto rapporto che intercorre tra israeliani e statunitensi a livello militare», sottolinea Carlo Del Bo, esperto di sicurezza informatica.
Dalla geopolitica si passa al singolo caso. «Lo smartphone di Syed Farook è un iPhone 5c su cui sarebbe stato installato sistema operativo iOs 9», continua Dal Checco. L’hardware dunque non è recentissimo: il modello è del 2013 e non possiede un livello di protezione altissimo. Ma il software è recente, dato che l’ultima versione di iOs è la 9.3, rilasciata proprio due giorni fa. Morale, per entrare in questo singolo iPhone è necessaria una chiave a doppia combinazione che sblocchi sia il telefono sia il sistema.
Più complicato è capire come si oltrepassa la barriera. Per i sistemi operativi dall’8.1 in poi, si tratta di sbloccare il Pin. Già, perché proprio come successo nel caso di Boettcher, il cui telefono è stato craccato dalla stessa Cellebrite, «è necessario sviluppare un software che permetta di provare tutti i Pin possibili senza che si attivi il blocco dopo 10 tentativi sbagliati», conclude Dal Checco. In alternativa, bisogna staccare la microscheda su cui si trovano i contenuti e copiarla ogni 10 tentativi in modo che non si cancelli.
Alla fine di questa storia tutti sembrano uscirne bene. Apple, rifiutandosi di collabora con l’Fbi, non ha tradito la fiducia dei suoi utenti aprendo la famosa «backdoor» (la porta che permette di accedere ai contenuti criptati). L’Fbi ha ingaggiato i migliori consulenti e non ha aspettato che fosse un privato a collaborare in un caso di terrorismo. Così come gli israeliani, che hanno portato a casa una pubblicità notevole. Ma, come sempre, c’è chi soffre. «Ed è il governo statunitense – sottolinea Giovanni Ziccardi professore di Informatica giuridica – che non è riuscito a piegare ai suoi voleri un colosso della Silicon Valley». Eppure il dubbio che in tutta questa vicenda la politica conti molto più delle indagini resta. Perché la guerra tra Fbi e Apple è appena iniziata.

Martina Pennisi e Marta Serafini