la Repubblica, 30 marzo 2016
La storia di Adou, il bambino della valigia che sogna di diventare Messi
«Da grande? Voglio essere come Messi. Mi piace troppo il calcio, papà mi ha promesso che mi iscrive a una scuola per imparare». A 9 anni, un sorriso solare e gli stessi sogni di tanti coetanei, Adou è un bambino felice. Nonostante tutto. Non sono trascorsi che dieci mesi da quel giorno di maggio del 2015 in cui la sua immagine, raggomitolato dentro un trolley passato allo scanner della frontiera del Tarajal, che separa il Marocco dall’enclave spagnola di Ceuta in territorio africano, fece il giro del mondo. «Je m’appelle Adou», furono le sue prime parole sotto gli occhi sbigottiti degli agenti della Guardia Civil.
Oggi quella storia è un ricordo. Perché il piccolo, arrivato in un modo così rocambolesco dalla Costa d’Avorio in suolo spagnolo, ha finalmente cominciato una nuova vita insieme alla famiglia — il padre Ali, la madre Lucie, la sorella Marie – lontano, dove nessuno conosce la sua storia. A 20 chilometri da Madrid, in un’antica cittadina della Castiglia con oltre mille anni di storia, gli Ouattara cercano il loro sogno di un’esistenza migliore. E Adou, il più piccolo (ha anche due fratelli, Ismael, 22 anni, e Michael, diciottenne), batte tutti in quanto a entusiasmo.
«Mamma, non mi piace che mi chiamino così, il bambino della valigia», diceva infastidito fino al Natale scorso, nei mesi trascorsi a Puerto del Rosario, sull’isola di Fuerteventura alle Canarie dove il padre era arrivato nel 2006 a bordo di un cayuco, una di quelle piccole imbarcazioni di fortuna che affrontano il mare tra mille insidie nei viaggi della speranza.
Così, in attesa che si risolva una situazione giudiziaria ancora delicata – la procura di Ceuta ha chiesto per Ali Ouattara una condanna a tre anni per aver “messo in pericolo” l’incolumità del bambino – la famiglia ha deciso di trasferirsi lontano da occhi indiscreti, approfittando del fatto che nella capitale abita una cugina di Lucie. «Adou è entusiasta, impara veloce lo spagnolo come solo i bambini di quell’età sono capaci di fare», dice Ali – ora disoccupato, se la cava con qualche lavoretto in attesa di trovare un posto fisso – che ammette però che il piccolo ha perso un paio d’anni di studi per i continui trasferimenti. «Ora frequenta la terza elementare, quando per la sua età dovrebbe essere in quinta. Ma l’importante è che si sta inserendo in fretta, le maestre sono contente».
Le amicizie? Per il momento soprattutto con i compagni di scuola, con il vantaggio che nessuno sa niente della sua storia da prima pagina, che nessuno può metterlo in imbarazzo con domande indiscrete. «Ora che comincia la buona stagione comincerà a giocare con i vicini di casa, con i bambini del quartiere». Ma il calcio non è l’unica passione di Adou.
«Mi piace anche la pallacanestro, però ancora sono piccolo, voglio crescere, così posso giocare». Il padre lo riconosce: «Me lo dicono anche a scuola: è più portato per le attività pratiche e fisiche, magari chissà, quando sarà più grande si interesserà anche per cose più culturali».
Madrid è il presente e il futuro, ma nel cuore resta sempre la Costa d’Avorio, il paesino di Assuefry, nel nord-est del paese, di cui la famiglia è originaria. «Sì, lo so, dovremmo sempre parlare in spagnolo, sarebbe meglio per tutti, però spesso a casa preferiamo comunicare in francese, o nella nostra lingua, il dioula. Mia moglie, che sta cercando un lavoro, a volte prepara piatti ivoriani con gli ingredienti che riusciamo a trovare. Le cose tipiche, a base di riso, fagioli, carne, patate». E Adou? Lui si è ambientato anche con la gastronomia: «Mi piace la tortilla, e i panini al prosciutto». Un bambino senza troppi pensieri, che in casa non parla di quella vicenda per la quale un giorno gli sono piovuti addosso gli occhi del mondo. Quando diventerà più grande gliela spiegheranno meglio. Gli diranno del gesto d’amore di un padre che aveva riunito la famiglia in Spagna e non poteva accettare di tenerlo lontano, soprattutto dopo la morte della nonna. La richiesta di ricongiungimento familiare respinta perché il suo stipendio – lavorava in una lavanderia di Fuerteventura – era di 50 euro inferiore a quanto previsto dalla legge spagnola. La trattativa con due tizi che promettono di portarglielo, sano e salvo, a Ceuta. «Ma io non sapevo», giura, «che avessero intenzione di portarmelo dentro una valigia».