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 2016  marzo 30 Mercoledì calendario

Tutti gli errori dell’intelligence belga

Trentacinque morti (contando i tre “martiri” di Zaventem e Maelbeek) e 340 feriti – ma anche il conteggio delle vittime è stato un rompicapo da queste parti – convincono il Belgio a fare oggi quello che avrebbe dovuto fare ieri. La Commissione terrorismo della Camera approva tre nuove misure (delle 30 suggerite dal governo) che sono l’abc della prevenzione a ogni altra latitudine dell’Unione.
Battezza una “rivoluzione” che è solo un tardivo ingresso nella normalità dell’Europa al tempo dell’Is.
Autorizza le perquisizioni notturne (fino a oggi impedite per legge oltre le 21 e prima delle 5), aumenta i poteri e gli strumenti di indagine nel tracciamento del commercio di armi nel paese che ne è il più grande mercato in chiaro e in nero d’Europa, dispone la nascita di una banca dati «dinamica» che, per la prima volta nella storia del Belgio, raccoglierà i dati di polizie municipali, polizia federale, polizia giudiziaria, Servizio segreto civile (la Surete de l’Etat) e militare (SGRS), ministero della Giustizia, Amministrazione delle carceri.
Una toppa a una catastrofe di cui non sembra dover finire mai l’inventario (peraltro la principale compagnia aerea, Brussels Airllines, ha appena annunciato 5 milioni di euro di perdite nell’ultima settimana). Ieri è stata l’Olanda, con il ministro della Giustizia Ard van der Steur ad accusare (smentito da Bruxelles) la polizia belga di aver ignorato il dossier ricevuto dall’Fbi sui fratelli El Bakraoui il 16 marzo (sei giorni prima della strage).
Ma, del resto, c’è solo l’imbarazzo della scelta. L’avvocato Olivier Martins, legale di Faysal Cheffou, l’uomo con il cappello che tale non era, venduto all’opinione pubblica del mondo intero come il terzo attentatore di Zaventem e rilasciato con tante scuse la mattina di Pasquetta, ha passeggiato ieri mattina sulle rovine di un arresto «che aveva in sé il germe dell’errore giudiziario».
Si scopre infatti che Faysal, un tipo sui generis, «radicale agitato più che radicale reclutatore» (per dirla con Martins), che vive in rue Franklin 72, al terzo piano di una palazzina di tre piani nel cuore del quadrilatero delle istituzioni europee, non aveva altro elemento di sospetto a carico che non fosse il «mezzo» riconoscimento del taxista che sosteneva di averlo portato a Zavantem.
Che la posizione del suo cellulare e delle celle agganciate tra le 8 e le 9 del 22 marzo lo collocava la mattina delle stragi altrove che a Zaventem (mentre il suo passaggio non lontano da Maelbeek è perché la casa in cui abita non è lontana da lì). Che delle sue impronte e del suo dna non c’era traccia in nessuno dei luoghi in cui gli altri attentatori le avevano lasciate.
Del resto, come a bordo ring di un pugile suonato, in piazza della Borsa, luogo dell’omaggio alle vittime delle stragi, legioni di anchormen televisivi da tutto il mondo, in collegamento notte e giorno, continuano ad avvicendarsi raccontando il fall- out delle stragi del 22 con il tono de «la sai l’ultima sul Belgio».
Anche perché la materia non manca. Ieri, per dire, Politico Europa, con urticante sarcasmo anglosassone, ha fotografato la Waterloo degli apparati della sicurezza del Paese con un lungo articolo il cui titolo suona come un epitaffio: The dirty dozen, la sporca dozzina. Ma non di eroi. Di disfatte. Dalla mancata sorveglianza dei fratelli Abdeslam nel gennaio 2015 dopo la loro segnalazione da parte della Turchia come jihadisti, al grottesco interrogatorio e altrettanto grottesca collaborazione di Salah dopo il suo arresto, al buco sui fratelli El Bakraoui, in libertà «vigilata» non si sa bene da chi, alle casse esauste di un bilancio dello Stato che non ha le risorse per finanziare Servizi e polizie nella vigilanza dei sospetti.
Fosse anche la sola polizia di Molenbeek, il quartiere dove tutto è cominciato, ridotta con le pezze al sedere e la «più povera nel budget» di tutte le polizie locali della capitale.
Del resto, per restare nella metafora di Politico, il ministro Jean Jambon non è Lee Marvin e il ministro della Giustizia Koen Geens non somiglia neanche un po’ a Ernest Borgnine. Le loro dimissioni sono durate lo spazio di un pomeriggio e la croce sull’ultimo di un’infinita sequela di errori (il mancato arresto di Ibrahim El Bakraoui dopo la sua espulsione dalla Turchia) è stata caricata sulle spalle di un povero ufficiale di collegamento ad Ankara.
«Ci vorrà del tempo per tornare alla normalità», si sente ripetere. Ma la domanda è: quale normalità?