Libero, 29 marzo 2016
In difesa di Robert De Niro
Fosse stata una mamma, sarebbe andata fino in fondo, lei. E avrebbe sbagliato. Fosse stata una mamma, magari una bella attrice, una erinnica Angelina Jolie, avremmo pianto tutti di commozione, perché anche un errore può diventare uno splendido melodramma, emozione e pathos nel tempo dei media lacrimevoli. Invece si tratta di un padre, e che padre: si tratta di un umanissimo e combattuto Robert De Niro, questa volta calato, senza copione, in un ruolo in cui non lo abbiamo visto mai. Questa volta è un padre che torna sui suoi passi, che fa vincere la possibilità del dubbio.
La storia forse la sapete: De Niro, amorevole e tormentatissimo genitore di un bambino autistico, aveva manifestato l’intenzione di proiettare nel festival di Tribeca (di cui è animatore e demiurgo) il film di Andrew Wakefield, «Vaccinati: dall’insabbiamento alla catastrofe». Si tratta di un docu-drama che prende spunto da una ricerca pubblicata nel 2010 sulla rivista The Lancet (e poi ritirata), in cui si accusa il governo americano di avere celato ai cittadini dati che legavano la diffusione dei vaccini e quella dell’autismo. Nulla di nuovo: le stesse dicerie neo-medievali che attraversano la nostra vecchia Europa, Italia in testa: da noi il 4% di genitori in più l’anno – una enormità – si rifiutano di vaccinare i loro figli. E così tornano epidemie e malattie debellate, teorie della cospirazione.
De Niro non condivideva fino in fondo la tesi di Wakefield, ma non è immune dal sospetto, non è protetto contro la sofferenza, è combattuto. Aveva deciso di proiettare comunque la pellicola, «per tenere vivo un dibattito». Poi ha ascoltato le voci, gli inviti. Si è documentato: ci ha pensato e ripensato, e quindi ha fatto marcia indietro. Niente film. Fosse stata una mamma, a mettere in pubblico questo tormento interiore, avremmo pianto, versato fiumi di inchiostro, reclamato interviste esclusive. Invece è De Niro. È solo un padre umanissimo che vive l’impotenza e la rabbia di essere genitore, non con la visceralità sublime di cui solo le madri sono capaci, ma con il rovello e il dolore silenzioso, che solo i padri conoscono. È stato attraversato dalla sofferenza, ha meditato, ha azzerato tutto. Lo ha fatto per amore, e non per incoscienza. Solo un padre conosce questa condizione: stare fra la madre e il figlio, stare fra la natura e la società, la tra malattia e la speranza, come tra l’incudine e il martello. Un padre lo sa, e per questo, oggi, io sto con lui. riproduzione riservata