La Stampa, 29 marzo 2016
La storia di Ana, la quindicenne giapponese che, dopo due anni di segregazione, è riuscita a liberarsi dal suo aguzzino. Un’altra Natascha
Quando Ana ha chiamato la mamma dal telefono di una cabina della stazione metropolitana di Nakano, a Tokyo, non riusciva quasi a parlare. Si sono messe a piangere tutt’e due, mentre lei ripeteva «sono io, sono io», e la madre le diceva «adesso ti veniamo a prendere». Come nella terribile storia di Natascha Kampusch, che fu rapita e segregata in Austria da Wolfgang Priklopil per 3096 lunghissimi giorni passati rinchiusa in uno scantinato grande cinque metri quadrati, anche Ana Saito, questa ragazzina giapponese di 15 anni che adesso appare con il volto sorridente mentre fa il saluto della vittoria con le due dita della mano, ha vissuto lo stesso incubo di tempo senza luce e senz’altra vita che non fosse quella del suo aguzzino, prigioniera per 24 mesi di uno studente, Kabu Terauchi, di 23 anni, che era riuscito ad avvicinarla all’uscita da scuola, in un lunedì del marzo 2014, fingendosi un avvocato divorzista che doveva curare la separazione fra i suoi genitori e che era stato mandato a prenderla da suo padre. L’aveva convinta così a salire in auto e a portarla via.
In manette
Da quel momento, Ana è rimasta in balia del suo rapitore, ammanettata come una schiava sin dalle prime ore di quest’incubo, in una stanza del college universitario dove viveva Kabu, senza poter mai neanche una volta respirare l’aria del cielo, costretta persino dopo pochi giorni del sequestro a scrivere una lettera ai genitori in cui diceva di aver voluto andar via di casa da sola, senza essere costretta da nessuno, e di non cercarla più, perché questa era la sua decisione definitiva: «Ho bisogno di una pausa da scuola e da casa. Sarò ospite di un amico. Vi prego, rispettate la mia scelta e non fate niente per farmi tornare indietro».
Papà e mamma non hanno più avuto sue notizie dopo queste poche righe tracciate su un foglio di quaderno ripiegato accuratamente dentro a una busta. Nel frattempo, Kabu aveva trascinato la sua vittima in un appartamento vicino alla stazione metropolitana di Nakano, in un grigio palazzo affacciato su una strada percorsa da un traffico intenso che era l’unica cosa che Ana riusciva a intravedere da una finestra chiusa. Mai una volta, in tutti i 24 mesi della sua terribile prigionia, le era stato permesso di uscire. L’ha fatto l’altro giorno, quando, ormai sicuro di sé e del suo potere, Kabu s’è dimenticato di chiudere la porta a chiave dal di fuori, come faceva sempre. Ana se n’è accorta. Ha aspettato un po’ di tempo e poi s’è precipitata giù per le scale, con il cuore in gola, senza fermarsi mai, senza guardare nemmeno la luce del giorno che rivedeva per la prima volta, correndo fino alla stazione della metropolitana.
La telefonata
Ha chiesto a una signora di aiutarla a telefonare alla polizia, perché non aveva niente in tasca, neanche uno yen per chiamare qualcuno. Poi ha sentito la voce di sua mamma ed è scoppiata in lacrime. Il suo aguzzino, appena si è accorto della fuga, è scappato da casa. L’hanno trovato qualche giorno dopo, quando la polizia ha ricevuto la telefonata di un passante che diceva di aver visto un uomo coperto di sangue che vagava per la città senza sapere dove andare. Gli agenti l’hanno riconosciuto subito e l’hanno portato in ospedale. Kabu aveva tentato di uccidersi tagliandosi la gola con un coltello.
Anche in questo la storia si ripete: Wolfgang Priklopil, il rapitore di Natascha, si tolse la vita buttandosi sotto un treno quando lei scappò. Anche lei era riuscita a fuggire perché lui aveva dimenticato il cancello aperto, dopo 10 anni di torture: «Lui regolava la mia veglia, spegnendo o accendendo la luce, decideva se privarmi del cibo o farmi mangiare, mi imponeva il digiuno forzato, mi picchiava in continuazione e quando volevami lasciava al freddo». Natascha s’era ridotta a cadere nel terrore se lui non tornava quando usciva: «Se fosse scomparso, sarei morta anch’io». Lui la costringeva a dormire nel suo letto ammanettata e le chiedeva di chiamarlo padrone: «È l’unica cosa che non ho fatto», ha detto lei. Doveva pulirgli la casa tutti i giorni, mezza svestita. Poi, però, a volte succedeva che lei lo consolava per il crimine che aveva commesso: «Dovevo convivere con quella persona...», ha spiegato Natascha. Come Ana, che adesso sorride ai fotografi, è riuscita miracolosamente a sopravvivere. La forza delle donne.