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 2016  marzo 27 Domenica calendario

Stragi a Bruxelles, arrestato anche l’uomo col cappello • Arrestato nel Salernitano un algerino che falsificava i documenti per la cellula di Salah • I parenti dei banditi egiziani: «Quel borsone non è di Regeni» • L’uomo ucciso dalla compagna con l’arma da samurai • I Rolling Stones in concerto all’Avana

 

Cheffou 1 L’uomo col cappello ripreso dalle telecamere di sicurezza dell’aeroporto internazionale di Zaventem mentre trasporta un carrello con sopra un bagaglio accanto ai due complici che poco dopo si faranno esplodere è in cella da tre giorni. Si chiama Faysal Cheffou, si definisce un «giornalista indipendente», viene anche lui dalla celebre Molenbeek, dove ha vissuto a lungo. «Instabile, facile a scatti d’ira incontrollati, emarginato dai suoi stessi compagni» si legge sulle note del suo dossier. Cheffou era ben conosciuto dalla polizia di Bruxelles. Nell’estate del 2015 si presentava alle porte del Parc Maximilien, si metteva davanti all’Ufficio stranieri e tentava di convincere i richiedenti asilo a fare la Jihad. «Qui o in Siria, non importa dove, io ti posso far arrivare ovunque». Succedeva ogni giorno, alla luce del sole. Ogni tanto qualche addetto lo prendeva a male parole. Ma lui tornava sempre. Yvan Mayeur, il borgomastro della Ville de Bruxelles aveva denunciato il suo attivismo. Lo considerava «pericoloso», il termine è scritto in grassetto nel documento presentato più volte alla procura. Non avendo ottenuto risposta, si era rivolto al tribunale chiedendo provvedimenti nei confronti di Cheffou. «In quanto la sua opera verbale di reclutamento a nome dei movimenti radicali islamici costituisce una forma grave di reato». Anche per conto della procura, il 24 settembre 2015 un giudice gli aveva risposto che la domanda fatta in qualità di amministratore non poteva essere accolta (Imarisio, Cds).

Cheffou 2 Karim, il fratello maggiore di Cheffou, era stato ucciso nel 2002 durante un conflitto a fuoco con gli agenti che stavano perquisendo la sua casa di Schaerbeek in cerca degli autori di una rapina. All’interno dell’appartamento venne trovata una borsa piena di granate. L’anno seguente, quando aveva appena 18 anni, Faysal Cheffou fu condannato per ricettazione e associazione a delinquere (ibidem).

Falsario Uno dei falsari su cui si appoggiava il gruppo degli attentatori di Bruxelles e Parigi per avere documenti taroccati e girare con più libertà in Europa è stato arrestato ieri in un piccolo comune del Salernitano, su mandato della procura federale del Belgio. Si tratta di un algerino di 40 anni, Djamal Eddine Ouali, che viveva a Bellizzi. I poliziotti lo hanno catturato per strada, dopo una ricerca che ha coinvolto i reparti dell’Antiterrorismo. Presto sarà consegnato alle autorità belghe. L’uomo è accusato di far parte di un organizzazione criminale dedita alla produzione di carte d’identità e passaporti falsi (Rep).

Regeni L’ultima versione del Cairo sulla morte di Giulio Regeni – e cioè che il ricercatore sarebbe stato preso da una banda specializzata nel sequestro di stranieri a scopo di rapina composta da cinque banditi, guarda caso tutti morti in uno scontro a fuoco giovedì scorso, ipotesi avvalorata dal ritrovamento di alcuni suoi effetti personali (passaporto, bancomat e due tesserini universitari) - non solo suscita «perplessità» tra gli inquirenti italiani ma viene pure smontata dalle dichiarazioni della moglie e della sorella di uno dei presunti rapinatori, Tarek Abdel Fatah: le due donne - scrive il sito del quotidiano Al Masry Al Youm - avrebbero negato che la banda abbia ucciso Regeni, e riferito come il borsone rosso che conteneva gli oggetti non appartenesse all’italiano ma a un amico del congiunto: secondo la moglie, solo «da cinque giorni» il borsone era arrivato in possesso del marito che l’avrebbe portato dove è stato trovato, cioè a casa della sorella, il giorno prima di morire. Ma, sottolineano gli inquirenti italiani, anche altri oggetti mostrati dalle autorità egiziane non appartenevano a Regeni: non erano suoi nemmeno gli occhiali da sole, il portafogli e i 15 grammi di hashish, che la moglie del capobanda avrebbe detto appartenere al marito. Ci sono poi altre domande senza risposta: perché i rapinatori avrebbero conservato per due mesi i documenti? Perché non hanno usato il bancomat? Perché torturare il ragazzo? Il 5 aprile, a Roma, è previsto un incontro tra rappresentanti della polizia italiana e quella egiziana, concordato dopo la trasferta al Cairo di un paio di settimane fa del capo della Procura della capitale, Giuseppe Pignatone, e del pm Sergio Colaiocco. Un appuntamento che in Procura ritengono importante, per tentare di ricostruire come i documenti del ragazzo di Fiumicello siano finiti lì dove sono stati trovati, e anche per verificare se finalmente le informazioni da tempo richieste – i video delle telecamere e l’elenco dei telefoni che hanno agganciato le celle delle zone dove Giulio abitava e dove è stato rinvenuto – siano messi a disposizione di chi indaga in Italia (Schianchi, Sta).

Delitto Mauro Sorboli, 40 anni. Residente a Milano, un paio di lontani precedenti, uno per droga, l’altro per una lite, non lavorava ma aveva la rendita di qualche appartamento in affitto. Da un anno conviveva nel suo monocale con Valentina Aguzzi, anni 44, web designer per una casa discografica nella zona nord di Milano. I due a detta dei vicini lirigavano spesso, specie quando lui beveva. L’altro pomeriggio, durante l’ennesima discussione, lei tirò giù dalla parete della camera da letto una wakizashi, uno spadino giapponese da 30 centimetri di lama, e gli urlò: «Adesso mi taglio, mi ammazzo, vuoi vedere?». Lui la fissò dal letto, la insultò, la sfidò con lo sguardo e con le parole: «Fammi vedere se sei capace», «Fai come vuoi, chi se ne frega», e qualche parolaccia ancora. L’Aguzzi allora lo colpì appena sopra il ginocchio, recidendogli l’arteria femorale. Lui estrasse la spada, il sangue cominciò a sgorgare, lei provò a tamponare la ferita e chiamò l’ambulanza ma non ci fu nulla da fare. Poco dopo le 15 di sabato 26 marzo in un monolocale in via Filippo Carcano, vicino alla vecchia Fiera di Milano (Giuzzi e Santucci Cds).

Rolling Stones Oltre 250 mila spettatori erano presenti nel grande piazzale della Ciudad Deportiva dell’Avana per il primo concerto dei Rolling Stones. Dopo il primo pezzo, "Jumping jack flash", Mick Jagger, in camicia color granata, ha cantato "It’s only rock and roll" e ricordato gli anni in cui a Cuba Fidel Castro aveva proibito la musica rock, da Elvis Presley, ai Beatles, agli stessi Stones. Perché, dopo l’abbraccio della rivoluzione cubana con l’Urss, quella anglosassone era considerata "musica sovversiva", simbolo della decadenza del capitalismo occidentale. Il concerto gratuito dell’Avana è stato anche l’ultimo del tour latinoamericano dei Rolling Stones che prima avevano suonato in Uruguay, Perù, Colombia, Brasile e Messico. Ma era sicuramente il più importante perché si è svolto subito dopo la visita di Obama, la prima di un presidente americano nell’isola dopo 88 anni. Il concerto è durato oltre due ore, diciotto brani in tutto, tra i quali "Angie", "Cocaine" e "Brown Sugar". Nella zona "vip" anche qualche celebrità, tra cui Naomi Campbell e Richard Gere (Rep).

(a cura di Roberta Mercuri)