l’Espresso, 25 marzo 2016
Confindustria, due aspiranti presidenti a confronto
Boccia, il delfino
di Sabina Minardi
C’è un filo invisibile che lega Honoré de Balzac, la sua lettura prediletta, agli adorati Minions, le creaturine gialle che servilmente seguono chiunque, purché sia un padrone: lo sguardo ironico sulla commedia umana. Vincenzo Boccia, 52 anni, salernitano, amministratore delegato dell’azienda Arti Grafiche Boccia e oggi al rush finale nella corsa alla presidenza di Confindustria (i 198 membri del parlamentino confindustriale voteranno il 31 marzo), è abituato ad assistervi da sempre. Da quando il padre Orazio, istrionico tipografo con biografia leggendaria, determinato a realizzare dal nulla il sogno di una grande impresa nel Mezzogiorno, accoglieva i clienti per correggere le bozze: «Giornalisti, scrittori, commercianti, politici alle prese con le campagne elettorali: chiunque avesse qualcosa da stampare veniva da noi, e incominciava a parlare, proponendo la sua idea di mondo. È stato il più efficace dei master», racconta Boccia jr nel suo quartier generale, 25 mila metri quadrati nella zona industriale di Salerno, che hanno inglobato i mille originali e proiettato l’azienda da realtà locale a un business che guarda avanti: 160 dipendenti più una trentina di contratti a tempo; un fatturato di 40 milioni di euro, un terzo del quale realizzato all’estero; uffici a Parigi, a Norimberga, ad Aarhus, a Beirut. E investimenti -50 milioni di euro negli ultimi dieci anni- per un’impiantistica flessibile e all’avanguardia, che la rendono capace di stampare le più esclusive riviste di design del nord Europa e le più familiari etichette sulle nostre tavole.Tutto a partire da uno scugnizzo, cresciuto in un orfanotrofio così duro da essere denominato “Il Serraglio”, e che tra freddo fame e lavoro pesante apprende il mestiere di tipografo. Riuscendo non solo a realizzare la bottega che aveva sempre sognato, con i compagni di quegli anni come primi operai, ma a coinvolgere i due figli e ad assistere, ora, alla corsa di uno di loro alla rappresentanza di tutti gli imprenditori d’Italia.
Logico che per Vincenzo Boccia la lezione inossidabile imparata dal papà sia prima di tutto una: l’anima imprenditoriale è un po’ come il coraggio, «o ce l’hai o niente da fare: nessuno te la insegna». Semmai, dagli anni di università – Economia e Commercio a Salerno – gli è rimasto un altro insegnamento: «Trasformare i vincoli in opportunità, come ripeteva un mio professore». La sua azienda l’ha fatto, nei momenti difficili: nel ’96, «perdemmo 4 miliardi di lire, fu un momento di tensione sociale. Vendemmo tutto per reinvestire. Fino al 2002 abbiamo vissuto una profonda ristrutturazione: si intuiva che Internet avrebbe cambiato il mercato, ma mentre si contraeva la quantità di carta stampata richiesta dall’editoria tradizionale si intravedevano altre possibilità: estendere il raggio d’azione all’editoria specializzata; allargare la clientela all’estero». Ripartire. Una sfida per l’intera impresa italiana.
«Dobbiamo rilanciare la vocazione industriale, affrontando le leve di competitività: le relazioni industriali, con la facoltà di derogare al contratto nazionale; una politica del credito che supporti le imprese nei processi di investimento; le riforme statali: se il governo continuerà a essere un fattore di modernizzazione avrà il nostro sostegno, se rallenterà la spinta sentirà il disaccordo», spiega. «L’unica strada che abbiamo per difenderci dalla concorrenza dei Paesi a basso costo di manodopera è quella di puntare su produzioni ad alto valore aggiunto, investendo in tecnologia e innovazione. I driver sono prima di tutto le infrastrutture, materiali e immateriali. E un piano strategico nazionale per le tecnologie digitali», dice scarabocchiando su un foglio bianco dopo l’altro: apre diagrammi, traccia curve, collega riquadri. E incide due lettere: “QI”. «La questione industriale è culturale: dobbiamo sapere raccontare con orgoglio l’importanza dell’identità industriale e produttiva d’Italia».
Parla della sua storia, Boccia, parlando del Paese. Perché una cosa è chiara: che la sua visione è espressione dell’autentica impresa familiare, evolutasi all’insegna della tecnologia e di un’apertura manageriale al mondo. «La piccola impresa è la condizione di partenza da superare: le piccole devono diventare medie; le medie devono diventare grandi, le grandi devono diventare multinazionali. È la mia ossessione». Ancora una volta, la parabola della sua azienda: «Siamo passati dalle prime macchine da stampa alla rivoluzione delle rotative e dei giornali». Per dieci anni, dal 2004 al 2014 la Arti Grafiche Boccia ha stampato il quotidiano “la Repubblica”. «Nel 2008 siamo entrati nel settore agroalimentare» aggiunge, tra stock di volantini di Carrefour ed etichette di cibi vari. Da qui esce buona parte del nostro immaginario domestico: l’etichetta rossa dell’acqua Ferrarelle, di salse e marmellate, stampe dell’Ikea. «Abbiamo un livello di fidelizzazione dei nostri clienti del 90 per cento», dice.
Come la spina dorsale di un gigantesco dinosauro, ogni rotativa – Heidelberg, Komori, la Corona Muller Martini, la Goss M600 A24, mostro da 50 mila copie all’ora, o la nottambula Cerutti che stampa “la Città” di Salerno – riversa riviste che parlano di ville, di rock, di beniamini dei teenager, album di figurine Panini pronti a circolare ai prossimi Europei di calcio, periodici di auto e moto di lusso. Modernità che si specchia con le origini: qui i suoni dell’innovazione, a fianco un piccolo museo della stampa, con macchinari suggestivi, come quello dei falsari Totò e Peppino De Filippo ne “La banda degli onesti”. Dentro, i rotoli di carta Burgo, enormi come balle di fieno in campagna. Fuori, omaggio alla cultura urbana con i murales di nove writers che hanno reinterpretato la B di Boccia. «Nel 2012 abbiamo festeggiato i 50 anni più uno dell’azienda. Abbiamo scelto di dare spazio a chi lascia segni, sulle pareti come sulla carta», spiega Boccia, che più che gesticolare, solfeggia. «Mi piace la musica classica. Ciajkovskij, Beethoven. Quando sono nel mio studio mi rigenero». A Pontecagnano, dove vivono la moglie e le due figlie. Al polso un bracciale di caucciù e motivi a lisca di pesce, come in certi graffiti preistorici: «È un portafortuna. Me l’ha regalato una delle mie figlie, e io la penso come Eduardo De Filippo: essere scaramantici è da ignoranti, non esserlo porta male». Rara concessione alla sua meridionalità, insieme all’endorsement che gli dà più soddisfazione: «L’appoggio di Bolzano e Legnano. Con quello dei Giovani imprenditori, che rappresentano la punta più avanzata del settore e l’anima più critica. Mi fa molto piacere anche il sostegno del Piemonte, con Torino in testa, territori dove il manufatturiero conta molto». Nella lista dei supporter Emma Marcegaglia e Luigi Abete, appoggio che conferma le caratteristiche di “uomo di sistema” dell’associazione. «Devo molto a ciò che ho imparato in Confindustria. Non userò mai il termine discontinuità. Preferisco la parola comunità: è lo spirito da ritrovare. Questa è stata una sfida per identità culturali diverse e non per latitudine». Perché sul Sud la sua idea è chiara: «Chi conosce il Paese sa che esistono i Sud. Il Mezzogiorno non ha bisogno di politiche speciali: ciò che fa bene al Paese fa doppiamente bene al Meridione». Evoluzione di sensibilità in chiave globale: dagli operai con la doppia bandiera sulla tuta, italiana ed europea, a un contratto di secondo livello che prevede uno scambio salario-produttività «sul modello tedesco», fino alla “lean organization”, lanciata per incrementare efficienza e formazione. «Una nuova divisione è nata per curare sul Web l’iniziativa “iltuogiornale.it”. Edizioni personalizzate di giornali per tirature basse. Oggi la sfida è competere col mondo», dice.
La conferma è nel suo studio, custode di privato e di viaggi all’estero: dalla foto-icona di Falcone e Borsellino scattata da Tony Gentile a una figura di geisha vestita di rosso; dalla bomboniera del matrimonio alla bandiera danese, patria di molte pubblicazioni stampate a Salerno. L’esatto contrario dello studio del padre, trionfo di rococò campano, stucchi, foglie d’oro, bureau alle pareti e foto-ricordo: mentre suona i piatti nella banda dell’orfanotrofio; quando riceve, nel 2008, il titolo di Cavaliere del Lavoro. «La nostalgia di futuro ci guiderà ogni giorno», scrive Boccia nel suo programma, saudade propria di uomini di frontiera come Adriano Olivetti: «Malinconia? No, sono un romantico: non vedo l’ora di partecipare a questo futuro. Sono abituato da sempre a ragionare anticipando: la sera, sfilavo il giornale che usciva dalla rotativa e lo divoravo. Il giorno dopo lo avevo già letto, ero pronto ad andare avanti».
*****
Vacchi, il cacciatore
di Glauco Maggi
Nel suo ufficio, spazioso e con vista sulla campagna, c’è anche la riproduzione di un dipinto di Miró. Alle spalle della sedia di Alberto Vacchi, però, campeggia una maxi-foto, virata seppia, della prima fabbrica di macchine per il confezionamento delle bustine di tè. L’impianto stava esattamente qui, al numero 428/442 della via Emilia a Ozzano dell’Emilia, 20 chilometri a est di Bologna, verso Imola. E qui sta ancora. La palazzina direzionale, quartier generale del gruppo Ima, è stata rimessa a nuovo ma sotto il pavimento dell’ufficio di Vacchi si costruiscono ancora i macchinari per confezionare il tè nelle bustine.
Un business in cui la famiglia Vacchi è entrata nel 1963 – un anno prima della nascita dell’aspirante presidente di Confindustria – e che non ha mai abbandonato. E mai abbandonerà, perché, come spiega il direttore ricerca e innovazione di tutto il gruppo, Dario Rea, «è quello che, percentualmente, fa più margini di tutti». Peccato sia relativamente piccino. Il mercato delle produzioni di qualità, in questo campo, vale circa 100-120 milioni l’anno. Ima è la regina assoluta di questo campionato, una potenza, con i suoi 70-80 milioni annui di ricavi, e piazza le sue attrezzature sforna-bustine a tutti i grandi del settore, dalla celebre Twinings a tedeschi, russi e asiatici. Ora la romantica area di business da cui tutto cominciò si chiama Tea & Herbs. Tisane e tè aromatici valgono meno di un decimo del giro d’affari di un gruppo che è diventato un colosso nel campo dei macchinari per il packaging di alimenti, che pesa poco più della metà di un fatturato che nel 2015 ha superato di slancio il miliardo di euro. Se chiedete a Vacchi qual è stata la scelta che lo rende più orgoglioso, la risposta è immediata: «Entrare nel capitale dei nostri fornitori di prima fascia, per rafforzarli e aiutarli a riportare in Italia una serie di lavorazioni».
L’idea, racconta, è stata di Massimo Marchesini, il direttore dei Sistemi produttivi di Ima. Uno dei fedelissimi di Vacchi, che misura costantemente il polso dei fornitori: «Le società partecipate da Ima, con quote del 20-30 per cento, sono una quindicina e nel periodo 2008-2016 sono passate complessivamente da 17 a 124 milioni di fatturato, aumentando l’occupazione da una media di 3-4 addetti a 17-18». Ora i lavoratori totali di questa pattuglia di ancelle, guidate da due imprese capo-filiera (Logimatic e Iema), sono oltre 900. «Con il nostro intervento le abbiamo aiutate a investire nei processi, a crescere, a essere finanziariamente più solide. Con vantaggi per loro, per il territorio e per noi». La maggioranza sta nel raggio di 50 chilometri. Vicinissimo all’head quarter, meno di un chilometro in direzione ovest, sempre sulla via Emilia, c’è il secondo storico sito di Ima, sede di altre due divisioni del settore farmaceutico, Ima Active e Ima Safe.
Non è facile capire chi fa cosa, sul pianeta farmaceutico dell’Ima: dalle macchine per riempire i medicinali liquidi alle blisteratrici e alle astucciatrici. Anche un profano capisce comunque che qui a Ozzano sono in grado di rispondere a tutte le esigenze dell’industria, dalla singola attrezzatura alla linea completa che può costare più di venti milioni e che talvolta richiede mesi per essere montata nella fabbrica dei clienti. Il gruppo spende il 5 per cento del giro d’affari in ricerca e sviluppo e c’è pure la Tablet Academy dove, a dispetto del nome, non ci si occupa di iPad ma di studiare come migliorare i macchinari che producono compresse d’ogni genere.
Cacciatore, tifoso del Bologna, assai poco mondano e molto mattutino (si alza alle 5:45 e corre per tre quarti d’ora), sposato e padre di un ragazzo, Alberto Vacchi è entrato in azienda nel 1992, partendo proprio dal tè. Nel 1996, un anno dopo la quotazione in Borsa, è diventato amministratore delegato. Aveva 32 anni e la Ima fatturava 70 milioni di euro. Gli stabilimenti sono passati in pochi anni da 10 a 34. Il più importante shopping nella storia del gruppo è scattato a cavallo tra il 2014 e il 2015, quando Ima ha messo sul piatto 70 milioni per cinque aziende tedesche – con impianti anche in Francia, Spagna e India – specializzate nella progettazione e costruzione di linee produttive per confezionare alimenti. Le nuove arrivate hanno contribuito a fare del gruppo emiliano uno dei principali player mondiali nel packaging alimentare, con otto stabilimenti. Uno dei quali è quello storico della Corazza (rilevata nel 2010 sganciando 57,5 milioni), che fa macchine per il dosaggio e il confezionamento di formaggio fresco, burro, margarina, dadi da brodo.
La campagna acquisti di Vacchi non si ferma più. Pochi giorni fa, il cacciatore ha messo a segno un altro doppio colpo, rilevando le attività della Komax, sempre tedesca, nell’assemblaggio di inalatori, siringhe, apparecchi per le iniezioni d’insulina, e quelle della piemontese Telerobot, forte nell’assemblaggio di materiali plastici nel settore dei tappi e delle chiusure di flaconi. E che l’imprenditore petroniano abbia tutta l’intenzione di allargare il suo impero del packaging lo conferma il fatto che, all’assemblea per l’approvazione del bilancio 2015, sarà chiesto ai soci di dare al consiglio di amministrazione la delega per varare un aumento di capitale. Opzione funzionale all’attrazione di capitali per dotarsi di ulteriori munizioni per l’espansione.
Vacchi è un tipo sportivo ma non ama il pugilato, almeno nelle relazioni industriali. «Lo stile dell’azienda è assolutamente “no fighting”, c’è la massima tendenza alla condivisione degli obiettivi», assicura Massimo Ferioli, direttore dell’organizzazione, in Ima dal 1997. «Stile che abbiamo mantenuto anche negli ultimi anni, anche se grazie alla crescita interna e alle acquisizioni abbiamo dovuto gestire situazioni più complicate, con tanti sindacati e territori coinvolti».
La Fiom alla Ima è maggioritaria, come quasi ovunque nella zona, ma ciò non ha impedito di instaurare un rapporto costruttivo. «Gli integrativi li firmiamo senza scioperi», dice Vacchi, «e, nel rispetto dei ruoli, cerchiamo sempre di trovare l’accordo. E ha funzionato, anche se non sono mancate discussioni accese». Tra i jolly calati sul tavolo delle relazioni industriali spiccano la politica dei premi di continuità, l’attenzione al welfare, la sponsorizzazione di progetti di beneficenza attiva su proposta delle Rappresentanze sindacali unitarie (Rsu). Ferioli racconta che da anni i premi di risultato scattano precisi come orologi svizzeri («l’anno scorso un lavoratore del quinto livello ha intascato 1.800-2.000 euro lordi») e, soprattutto, che il boss ha voluto introdurre un benefit legato alla stabilità delle performance. «Così se per tutte le annate dell’integrativo, che possono essere 3 o 4, si raggiungono gli obiettivi, oltre al premio annuale ne arriva uno aggiuntivo».
Il turn-over è assai basso. Dei 2.400 addetti in Italia, oltre 1.400 lavorano in ditta da più di dieci anni. «È difficile andarsene, c’è un forte senso di appartenenza, e con la crescita e le acquisizioni c’è sempre un sacco da fare», spiega Dario Rea, che ha salito tutti i gradini della ricerca e continua a disegnare macchine. Ma se Vacchi va in Confindustria, che succede? «Siamo contenti e orgogliosi e un po’ preoccupati, perché dovremo essere ancora più efficienti», dicono all’unisono Ferioli, Marchesini e Rea, i tre manager della vecchia guardia. Accanto a loro, Werter Castelli, un montatore di blisteratrici in tutta rossa, fa il tifo anche lui. E pure lui, dice, è un tantino preoccupato.