Libero, 25 marzo 2016
La guerra raccontata da uno che l’ha fatta per otto anni senza capire perché
Fuma una sigaretta, indossa un paio di anfibi neri e un jeans strappato. Con molta ironia mostra il suo braccialetto colorato very cool. Elliot Ackerman è in Italia per presentare il suo romanzo d’esordio, Prima che torni la pioggia (Longanesi, pp. 312, 16,90 euro), una storia che lo scrittore Khaled Hosseini ha definito di «vendetta, lealtà e amore tra fratelli».
Dopo otto anni vissuti al fronte come consulente delle truppe afghane nella guerra contro i sovietici, l’ex Marines americano si è liberato dei suoi fantasmi raccontando l’Afghanistan attraverso gli occhi di Aziz, un giovane orfano che dopo aver perso il fratello in un attentato, entra a far parte dello Special Lashka – un comando afghano alleato agli americani – per vendicare quella dolorosa morte. E così, tra polvere, carri armati, morte e violenza, Ackerman è riuscito a mantenere viva la memoria e il ricordo di «un’esperienza estrema» vissuta accanto a dei commilitoni che –anche in Siria– ancora oggi, nel suo cuore e nei suoi pensieri, continuano a fare lo stesso rumore delle bombe.
«Disse l’apostolo di Allah: La guerra è inganno».
Elliot, come mai ha deciso di aprire il suo libro con questa citazione?
«Ho tratto questa et ergo da un testo islamico. Io penso che tutte le guerre siano un inganno. La regola fondamentale che tiene insieme la nostra società è il comandamento non uccidere. Questo dimostra che fare una guerra, uccidere altre persone, vuol dire ingannare l’umanità. Quando si decide di combattere contro qualcuno il compito da svolgere diventa più importante degli uomini, e siccome per adempiere al tuo compito devi sacrificare i tuoi uomini, alla fine la guerra consiste nel distruggere i legami d’amore che hai costruito per poterla fare».
Prima che torni la pioggia vuol dire prima che torni la guerra?
«Sì, penso che si possa senz’altro adottare la sua interpretazione. Rappresenta la scena conclusiva del libro, ma lascio che siano i lettori a leggerla».
Come mai ha voluto dedicare il suo romanzo a due soldati afghani?
«Quando ho prestato servizio nei Marines, l’ho fatto come consulente delle truppe afghane. I miei commilitoni erano afghani, mentre militavamo si sono sviluppati stretti rapporti tra noi. Una volta tornato negli Usa poi, i miei compagni americani riuscivo ancora a sentirli o a vederli, quelli afghani no. Li pensavo continuamente, erano rimasti intrappolati in quella guerra infinita mentre io ero a casa. Allora ho scritto questo libro, un gesto d’amicizia nei loro confronti: ho voluto omaggiare Ali e Big Cheese, amicizie che stavo perdendo e di cui nessuno poteva parlare a parte me che li avevo vissuti».
Per questo un bel giorno ha deciso di posare il fucile e impugnare la penna?
«È stata una scelta inevitabile. Tutti gli scrittori scrivono della condizione umana. La guerra è un momento che ti apre degli scorci, ti porta a capire come si comportano gli uomini in delle situazioni estreme. Tutte le persone per essere felici hanno bisogno di uno scopo: dopo 8 anni di guerra, il mio è stato raccontarla».
E adesso che vive a Istanbul le manca l’America?
«No, in America mi sento fuori luogo. Qui mi sento bene, mi piace vivere da esiliato. Mi sono innamorato di Istanbul, mi sento ispirato da questa città. Oltretutto sto lavorando al mio prossimo romanzo, una storia d’amore che è ambientata proprio al confine tra Istria e Turchia».
Secondo l’Economist, il repubblicano Donald Trump è pericoloso per l’economia mondiale quanto lo Stato Islamico. Lei è d’accordo?
«Guardi, per fortuna del mondo Usa, a oggi non c’è differenza tra Trump, Hillary Clinton, Bernie Sanders e via dicendo. Chiunque tra loro diventi il prossimo governatore degli Stati Uniti, a prescindere dalla fazione politica, dovrà sobbarcarsi tutte le insoddisfazioni del popolo americano. L’unica cosa certa è che il processo di selezione del Presidente non è pensato per tirare fuori il meglio degli americani».
E di questa guerra cosa mi dice? Come vede oggi la situazione in Siria?
«Siamo di fronte a un disastro che comincia ad assomigliare a quello che ho vissuto io in Afghanistan. Solo che adesso è diventato un conflitto multilaterale, con tanti attori in gioco. Non si capisce più per cosa si sta combattendo, ma si continua a far la guerra per le perdite che si sono subite. Continuando così si finirà per non aver più pace».