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 2016  marzo 25 Venerdì calendario

In morte di Johan Cruijff

Filippo Facci per Libero
E ora, magari, bisognerebbe raccontare chi era Johan Cruijff a tutti quelli che erano troppo giovani per capirlo, spiegarlo a chi non era nato, chiarirlo a chi compulsa filmati su Youtube e azzarda paragoni coi vari Cristiano Ronaldo. Diosanto. Bisognerebbe spiegare perché la Federazione internazionale di storia del calcio l’ha messo al secondo posto nella classifica degli migliori calciatori, dietro a Pelè, e bisognerebbe spiegare che non era veloce e però era velocissimo, non era bello e però era bellissimo, non era simpatico e però era simpaticissimo, non aveva un ruolo e però li aveva tutti, era un goleador e però passava la palla da dio, a ben guardare non era neanche un vero dribblatore, e però con una finta e un cambio di passo ti infilava chiunque.
Johan Cruijff non ha mai vinto una Coppa del mondo, ma lo sapevamo tutti che lui e l’Olanda erano i più forti, e che l’Olanda era lui. Lo sapevamo tutti, noi cariatidi, che l’Olanda perse due finali contro le nazionali del paese ospitante. Sappiamo questo e altro: il problema è che se dici a un ragazzino che Gianni Brera definiva Cruijff «Pelè bianco», quello, magari, non sa chi era Gianni Brera; se spieghi che gli dedicarono un film al cinema e che Sandro Ciotti lo definì «Profeta del gol», quello, magari, non sa chi era Sandro Ciotti. E allora che fai, da dove ricominci?
A un ragazzetto non gliene frega niente del romanzetto di Johan che era orfano di padre con la madre fruttivendola, scartato alla leva perché aveva i piedi piatti: quindi devi portare pazienza e tentare di spiegargli che Cruijff fu il primo interprete del calcio moderno, anche se, nel calcio moderno, non c’è più niente del genere; devi spiegargli che il Cruijff dell’Ajax e dell’Olanda è stato il massimo interprete del «calcio totale» e però, quindi, devi spiegargli che cos’era il calcio totale. E allora ci provi: il calcio totale - dici - era uno stile di gioco per cui ogni calciatore che si spostava da una posizione veniva subito sostituito da un compagno, permettendo così che la squadra rimanesse tatticamente schierata e lasciando che nessuno fosse impiccato al proprio ruolo: poteva essere difensore o centrocampista o attaccante.
Poteva soprattutto lui, Cruijff, che in ogni partita si muoveva a tutto campo e cercava sempre la posizione più pericolosa per gli avversari: in pratica era ovunque, anche se negava di essere poi questo fulmine. «Sembro veloce», diceva, «perché inizio a correre prima che gli altri se ne accorgano». Sta di fatto che poi se ne accorgevano tutti, anche i suoi compagni che si adattavano ai suoi movimenti. Ma, detto anche questo, che cosa abbiamo spiegato? In realtà basterebbe guardarsi dieci minuti dell’Olanda di allora e le parole starebbero a zero: guardare e rimirare la grazia, la naturalezza, la potenza, l’atletismo, la leggerezza, una gioia per chi capiva di calcio e per chi non ne capiva un accidente. L’Olanda piaceva persino alle donne, fate vobis: ma piaceva, forse, perché gli olandesi erano pure quelli fighi, coi capelli lunghi e i basettoni e la maglietta fuori dai pantaloncini, quelli allegri che fumavano e che se ne fottevano, soprattutto che avevano aperto il ritiro a mogli e fidanzate e squinzie varie: tutte strafighe, ovvio. Oggi un bambino che voglia diventare calciatore bisognerebbe internarlo, ma un bambino che nel 1974 volesse diventare calciatore dell’Olanda era da perdonare. Oggi no, nel giorno della morte di Johan Cruijff non c’è da perdonare nessuno, non c’è neppure da umiliarsi a spiegare; fateli inginocchiare, i bambini, e fategli scandire e imparare questi nomi: Cruijff, Neeskens, Krol, Rep, Haan, Rensembrink, Willy e René Van de Kerkhof. Alias: calcio totale e gioia di giocare, mica miliardi e quel tiki taka che qualcuno osa accostare al calcio totale.
Fu un sogno calcistico breve e irripetibile, l’unico Sessantotto che piacque davvero a tutti, prima che l’Olanda perdesse due finali e prima che il calcio difensivista all’italiana - giocato però dalla Germania, come ammise Franz Beckenbauer - riavesse la meglio con la sua pratica modestia.
Non è un caso che Cruijff abbia sempre odiato il calcio catenacciaro all’italiana, e non è un caso che, tutto sommato, avesse ragione anche su questo: dopodiché ci resterebbe solo da parlar male di Garibaldi. Ma non ci interessa, ora. Ieri è morto Johan Cruijff, il Pelè bianco, il più forte di tutti assieme a quell’altro, Pelè, il Cruijff nero.

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Roberto Beccantini per il Fatto Quotidiano
È morto di fumo, lui che era tutto arrosto, ma proprio tutto, in campo e in panchina, come persona e come personaggio. Johan Cruijff è stato grande di una grandezza assoluta, trasversale. Se è difficile paragonare giocatori di epoche lontane, nel suo caso diventa quasi doveroso e piacevole. Nessun dubbio che vada collocato al vertice dell’Olimpo, con Diego Maradona, Pelé, Alfredo Di Stefano e Juan Alberto Schiaffino.
Aveva 68 anni. Se Schiaffino, Pelé e Maradona si sono alternati nello scrivere la storia del calcio, Di Stefano e Cruijff l’hanno cambiata. E se la saeta rubia l’ha cambiata sul piano individuale, moltiplicandosi, tanto che ancora oggi “giocare alla Di Stefano” resta un modo di dire per rendere onore a un modo di fare, Johan l’ha stravolta a livello filosofico. Era un genio, non un Rambo. Mingherlino, elettrico. Crebbe nell’Ajax di Rinus Michels, in un’Amsterdam aperta ai venti inquieti del mondo.
Negli anni 50 e 60 dominavano le latine: il Real di Di Stefano, il Benfica di Eusebio, le milanesi. Si giocava per reparti, si cercava l’avversario più che se stessi. Gli anni 70 segnarono una cesura drastica. Cruijff, l’Ajax e l’Olanda ci portarono nello spazio, al di là delle marcature rigide e dei compiti fissi. Fu una rivoluzione netta che ci fece tutti prigionieri. Nacque il calcio totale, un inno all’eclettismo, dai ruoli felicemente ambigui, senza riferimenti e limiti di velocità (di gambe e di pensiero). Vinse e rivinse tutto, e anche quando arrivò secondo, al Mondiale del 1974, fregato dal pragmatismo germanico, passò comunque alla cassa della memoria, una delle più esigenti.
Ai giovani che non l’hanno visto, ricordo che fu “falso nueve” e tuttocampista. Stravagante fin dal numero, il 14, perché – si narra – era nato alle ore 14, abitava al 14 e il suo telefono cominciava e finiva per 14. Già da giocatore era quel visionario che sarebbe poi stato da allenatore. Ha decorato l’Ajax più bello e portato il Barcellona fuori dalla mediocrità. Insegnava, Cruijff, che “nel calcio la distanza massima che un giocatore deve percorrere, dev’essere di dieci metri”. Sembrava uno slogan, uno dei tanti. Era, in realtà, la scintilla del tiki taka che Guardiola, allievo devoto, avrebbe trasformato in marchio. Giocava allenando. Allenava giocando. L’albo d’oro è un fiume in piena: da giocatore, 10 scudetti (8 Ajax, 1 Feyenoord, 1 Barcellona); 7 Coppe nazionali (5 Ajax, 1 Feyenoord, 1 Barcellona); 3 Coppe dei Campioni, 1 Supercoppa d’Europa, 1 Intercontinentale (tutte con l’Ajax); da allenatore: 4 scudetti (con il Barcellona), 3 Coppe nazionali (2 Ajax, 1 Barcellona), 3 Supercoppe di Spagna, 1 Coppa dei Campioni, 1 Supercoppa d’Europa (tutte con il Barça), 2 Coppa delle Coppe (1 Ajax, 1 Barça). Più 3 Palloni d’oro (2 Ajax, 1 Barça) e la bellezza di 402 gol in 716 partite. Un po’ di Usa, anche, e il ritorno a casa, nella Catalogna mai tradita e mai traditrice. Fuori-classe nel senso letterale, fondamentali superbi e dribbling leggero, rapido, secco come un colpo di bisturi. Qui e là s’imboscava, salvo poi azzannare con lo scatto del leone che piomba sulla gazzella.
Era arrogante, ribelle, atipico, apolide, sapeva di essere tutto, pretendeva il massimo da chi lo pagava, da chi lo affiancava e, sotto sotto, da chi lo affrontava. Sandro Ciotti gli dedicò Il profeta del gol un documentario molto giusto, e giustamente magico. Nel suo album, anche cartoline italiane. All’Ajax perse una finale di Coppa dei Campioni con il Milan di Rivera (1-4), ma poi bastonò l’Inter con una doppietta (2-0) e mise a nanna la Juve (1-0). Allenava il dream team del Barcellona quando, nel 1992, alzò la prima Coppa dei Campioni della storia catalana: 1-0 alla Samp di Mancini e Vialli. Il Milan di Capello, in compenso, gliele suonò nel 1994. Spocchioso come sapeva essere, immaginò una passeggiata. Non andò così: 0-4. Cruijff è uno dei rari fenomeni che appartengono alla gente, e non solo alle squadre che l’hanno forgiato o ha plasmato. C’è stato un calcio prima di lui e ce n’è stato un altro dopo. Penso che basti.

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Andrea Scanzi per il Fatto Quotidiano
Per quegli strani meccanismi della memoria e della di lei cristallizzazione, una delle prime immagini che torna alla memoria dei quarantenni o giù di lì quando pensano a Cruijff, coincide con i giorni che precedettero la finale di Coppa Campioni 1994.
Johan Cruijff allenava il Barcellona e, secondo lui, aveva già vinto prima ancora di giocare. Rilasciò dichiarazioni teatralmente tronfie e si fece persino fotografare baciando la Coppa. In campo andò diversamente, il Milan ne fece scempio e in quel 4-0 si vide forse il miglior Savicevic di sempre. Cruijff era anche questo. Se non avevi fatto in tempo a vederlo, ti sentivi come quando ascolti un disco dei Led Zeppelin o dei Pink Floyd: vai a ritroso lungo la corrente della storia. Con la musica, e con il cinema, è più facile: Dark Side Of The Moon è bello come ieri, e così Taxi Driver. Con il calcio è più complicato: è un’arte anomala, che si basa soprattutto sulla passione del momento. È un’arte istantanea, che neanche si presta all’epica cinematografica (a differenza di boxe o Formula 1). Johan Cruijff non potevi mica scoprirlo guardandone le gesta su Youtube. Potevi però intuirne – questo sì – la portata. L’enormità rivoluzionaria.
Da calciatore, da allenatore, da dirigente. Non ci sarebbe il Barcellona di oggi senza Cruijff. Non ci sarebbe stato il Milan di Sacchi senza Cruijff. Già, il Milan. Che era di Capello, nel 1994, ma cambia poco. Milan in cui, stanco e un po’ sbiadito, Cruijff giocò pochi minuti nell’81 durante un Mundialito.
Conviveva già con un fisico che cominciava a franare. Sembrava prossimo a vestire la maglia rossonera, poi non se ne fece nulla e tornò a giocare in Olanda, prima Ajax e quindi Feyenoord. Trovò pure il tempo di giocare con i giovanissimi Rijkaard, Van Basten e Gullit. Era alla fine, ma vinse ancora. Nel ’94 non ci riuscì, ma in quella sua calcolata supponenza c’era comunque la stessa – lucidissima – convinzione del proprio valore: inutile fingersi umili, quando si è oltremodo immensi.
La ricetta di Muhammad Ali, un altro che restò sbruffone anche quando non era più lui e sapeva per questo che contro Larry Holmes ne avrebbe prese fino quasi a morirne. Costantemente presuntuoso e smisuratamente spigoloso, Cruijff era così pervaso dalla propria grandezza da lasciarla intuire anche a chi non aveva fatto in tempo a vederlo profetizzare sul campo. In ogni posizione del campo: calciatore tuttofare, uomo totale. Per Gianni Brera era “il Pelé bianco”, per Sandro Ciotti “il profeta del gol”. Per Van Basten il più grande di tutti, e se lo diceva il Divino Marco c’era da fidarsi. A quel punto, se scattava la molla della curiosità, e accidenti se scattava, frugare nella sua storia era uno spettacolo. Riformato al militare per i piedi piatti e le caviglie malforme, ovvero per quelle parti del corpo che ne avrebbero giustificato la divinizzazione. Quel numero, “14”, che prima di lui voleva dire riserva e dopo di lui vuol dire Cruijff. Il rapporto con Rinus Michels, gli scazzi con chiunque ne contestasse la natura di Re Sole.
La volta che smise e andò negli States. Il tentato sequestro del ’77, che lo traumatizzò al punto da indurlo a rinunciare ai Mondiali militarizzati del ’78. La sconfitta ai Mondiali ’74, il giorno peggiore per gli esteti del calcio. I bypass come troppi cerotti su un cuore stremato. Le parole come lame, lo sguardo come una feritoia. Per chi l’ha visto e per chi non c’era, Johan Cruijff è stato collettivo e anarchia. Eresia e utopia. Soldato e generale, soprattutto generale. Artista e proletario, soprattutto artista.

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Tony Damascelli per il Giornale
iHanno strappato una pagina dell’album di figurine. Johan Cruijff è morto. Un cancro ai polmoni si è portato via una fetta grande di storia e di vita del gioco più bello. Cruijff era il football, come Cassius Clay la boxe, come i Beatles la musica leggera, uomini di un’epoca smarrita e non per trappola di nostalgia. Johan Cruijff ha finito di soffrire per il male oscuro che gli aveva sgonfiato i polmoni: «Cerco di vedere la chemioterapia come un’amica. Un’amica che mi può aiutare a stare meglio». L’amica ha lasciato, ieri mattina, la mano di Johan, il figlio di Petronilla e di Germano si è arreso, solo e solitario, accompagnato da Dio che, come lui stesso ripeteva, «Sta con me, ho questa fortuna». Sessantotto anni sono un’età nella quale non si è più giovani e maturi ma nemmeno vecchi e compatiti. È il momento nel quale hai trascorso le prime due settimane di vacanze con un tempo bellissimo, il tempo dei lancieri dell’Ajax e dell’arancia meccanica olandese, gli anni dorati di Barcellona, quelli aspri nelle piccole squadre inglesi, americane, messicane, esibizioni circensi per un eroe alla ricerca di denaro perché le prime due settimane di vacanze erano finite e la terza settimana si preannunciava nuvolosa. Una saetta lo aveva ferito al cuore, un’altra lo aveva demolito, l’infarto gli aveva tolto di bocca il vizio maledetto del tabacco, una, dieci, cento sigarette a tormentare le mani, a ingiallire le dita. Poi, improvvisa e malefica, l’ombra del tumore, la cura pesante, la sofferenza serena, il desiderio di correre ancora più di questo avversario cattivo. Cruijff non lascia soltanto una moglie e tre figli. Lascia il silenzio, il vuoto, un mare che da trasparente e azzurro diventa torbido e tempestoso. Ha giocato un football diverso da tutti quelli che lo avevano preceduto e che lo hanno poi seguito. La sua arte risiedeva nei piedi e nel cervello: «Giocare a calcio è facile ma giocare un calcio facile è molto difficile». Il numero 14, sulla sua maglietta dell’Ajax e della nazionale, spiazzò i tradizionalisti, poi diventò una leggenda. A Barcellona gli negarono il privilegio, scelse il 9 ma sotto la divisa ufficiale portava una maglia con il 14. Sapeva calciare di destro e di sinistro, di forza e di eleganza, giocava sul tempo, sull’anticipo, cambiando direzione in corsa. Per capire il fenomeno bastano i primi quattordici secondi della finale mondiale tra Germania e Olanda del 1974: l’arbitro Taylor fischia l’inizio del gioco e dopo dodici secondi Johan Cruijff è nell’area tedesca dove viene atterrato da Hoeness. Rigore di Neeskens 1 a 0. Dodici secondi, nulla, tutto, la didascalia del football di un fuoriclasse. L’Olanda delle cicale perse quel mondiale contro la Germania delle formiche ma tutti ricordano le magliette arancioni, pochi i tedeschi di Germania.
Cruijff e i suoi festeggiarono la sconfitta con mogli e amanti che li avevano accompagnati nel torneo, libero amore in libero calcio, la rivoluzione di tutto, barbe, basette, lunghi capelli e birra e alcool e sesso. Johan fumava e correva, fumava e giocava, fumava e studiava football, non soltanto la tattica ma la tecnica, il piacere, l’estetica. È stato lui, da allenatore, a creare il football totale, il tiki taka che oggi imperversa dovunque, come la cucina, sui campi e in televisione, nei commenti di chi non ha mai visto giocare il campione olandese. La sua lezione era semplice: se hai la palla tra i piedi sono gli altri a doversi occupare e preoccupare di te, se hai cinque metri di spazio chiunque può giocare a football ma in quei cinque metri devi sapere che fare e dove andare. È stato lui, prima di Messi, a calciare a due un rigore, è stato lui a disegnare la magica rabona per il cross (in Italia, non lo dico per scherzo, era il colpo migliore di Roccotelli) è stato lui a calzare scarpe da gioco firmate contro lo sponsor ufficiale della squadra. Non aveva il fisico proprio del calciatore, come lo si intendeva al tempo e lo si definisce oggi. Quel viso spigoloso lo faceva assomigliare a una zitella inacidita, la sua corsa nervosa sembrava sempre spinta da un vento privato, il dribbling velenoso e rapido lo portava sempre oltre l’ombra che gli fosse parata davanti. Gianni Brera lo definì il Pelé bianco. Edson Arantes era un puma, Johan un ghepardo. Nel febbraio del Settantotto si giocò al Camp Nou il quarto di finale della coppa del re tra Barcellona e Alaves, in questa squadra faceva il suo esordio Jorge Valdano. Cruijff era il re in campo, agitava le mani su ogni azione, dirigeva lui anche l’arbitro; a un certo punto, mentre l’olandese stava discutendo proprio con l’arbitro, Valdano osò avvicinarsi al campione: «Perché non ti porti il pallone a casa e ce ne lasci un altro, così noi continuiamo la partita in pace?». Cruijff fece una smorfia, poi chiese all’argentino «Quanti anni hai?» e Valdano: «Venti». Johan chiuse il dialogo: «A vent’anni, quando ci si rivolge a Cruijff, si deve usare il Lei».
Conto le coppe, i trofei, i premi, sono un museo. Non ha vinto il mondiale ma è stato un campione mondiale. Non ha vinto un europeo ma è stato il migliore del vecchio continente. Ha vinto in Olanda e in Spagna, ha spiegato ai bambini che il football è un gioco, soltanto un gioco, ha spiegato ai grandi che il calcio è anche sofferenza, sacrificio che deve far venire la pelle d’oca a chi lo gioca e a chi lo osserva ma è soprattutto divertimento. È stato un genio ribelle, ha avuto nemici, moltissimi, in Olanda e in Spagna, è stato bandiera dell’indipendenza catalana, allenando la nazionale di quel territorio, ha conosciuto il mondo e il mondo ha conosciuto Johan. Lo ricordo in una fotografia, era l’estate del Settantatré, indossa la maglietta della Juventus, donatagli da Francesco Morini, dopo la finale di Belgrado persa contro l’Ajax. Ricordo una fotografia di Johan con la maglia del Milan, una esibizione, tre quarti d’ora nel mundialito, era l’estate caldissima dell’Ottantuno, contro i nemici del Feyenoord, Cruijff giocò con una cicatrice sulla coscia, memoria di un perfido strappo al muscolo quadricipite. Conservo autografo e altre memorabilia sue, la zitella mi disse un giorno: «Non fidarti troppo di noi olandesi, siamo marinai che promettiamo amore ad ogni porto dove attracca la nostra nave».
Mi sono fidato sempre di lui. Anche ieri, quando ho saputo che l’amica aveva lasciato la sua mano. L’album delle figurine ha una pagina strappata. Inutile piangere, posso dire soltanto: grazie.