Corriere della Sera, 24 marzo 2016
Ci sono quattro terroristi in fuga da Bruxelles. Uno dei kamikaze venne fermato e poi rilasciato
Marco Imarisio per il Corriere della Sera
Nell’angolo più buio del sottoscala c’è ancora un sacchetto di nylon con la posta che i proprietari non hanno mai ritirato. «Nessuno ce lo ha chiesto», racconta Mohamed, un anziano signore dalla barba bianca vestito con la classica tunica marocchina. Ancora una volta si torna a Molenbeek, al comune nell’area metropolitana di Bruxelles diventato a torto o ragione sinonimo di culla del jihadismo. A Les Beguines, il locale all’angolo di una casa in mattoni rossi che fino a due settimane prima della strage di venerdì 13 novembre a Parigi era gestito da due baristi che di nome facevano Brahim e Salah Abdeslam. «Succedeva sempre di sera», raccontano gli abitanti.
Ragioni sbagliate Il bar chiudeva, e dentro restavano gli amici. È come se il mondo stesse scoprendo cose che in questo microcosmo diventato celebre per le ragioni sbagliate erano da tempo di pubblico dominio. I fratelli El Bakraoui arrivavano quasi sempre insieme, dopo la palestra. Khalid, il più piccolo, 27 anni come l’ex primula rossa del terrorismo internazionale, aveva anche lavorato per qualche tempo dietro al bancone, mentre Ibrahim condivideva con il più grande degli Abdeslam, il capo, la visione di filmati truculenti targati Isis, alternata a una massiccia dose di pornografia.
Gli attacchi di Parigi e Bruxelles hanno la stessa mano, questo ormai è chiaro. Ma i legami tra i membri di quella che resta a metà strada tra la cellula e un gruppo di amici che si è radicalizzato in carcere sono così evidenti che basta mezza giornata per ricostruire una mappa talmente fitta di incroci da risultare spesso più complicata di quel che è. Ibrahim El Bakraoui si è fatto saltare in aria alle 7.51 di martedì nella hall dell’aeroporto internazionale di Bruxelles. Pochi attimi, a duecento metri di distanza dalla prima esplosione, anche Najim Laachraoui, precedentemente noto con il falso nome di Soufian Kayal, si è dato la morte nello stesso modo, nel tentativo di uccidere più persone possibile. Appena un’ora dopo, Khalid El Bakraoui ha fatto strage nel secondo vagone della metro leggera diretta alla fermata di Maelbeek. Manca solo una persona. L’uomo che viene ripreso con un cappello in testa e un giubbotto bianco mentre cammina insieme ai due futuri suicidi. Dietro di sé ha lasciato una sacca pieno di esplosivo, così instabile da esplodere prima dell’intervento degli artificieri.
Gli attacchi di Bruxelles sono quasi una conseguenza di quelli di Parigi, e ad essi rimandano. A cominciare dalle personalità e dal percorso dei loro autori. «Persone già note alle forze dell’ordine». La formula è uguale, in ogni Paese. Il 30 gennaio 2011 Ibrahim e altri due complici si rendono protagonisti di un’altra brutta giornata per Bruxelles. Alle 15.10, poco dopo la riapertura pomeridiana, fanno irruzione in una filiale della Western Union di rue Adolphe Max. Il commesso dà l’allarme e fugge dalla porta principale. I tre banditi non hanno il coraggio di fermarlo con le armi che tengono in pugno. Ma all’uscita, quando incrociano una macchina della polizia, sparano all’impazzata ferendo alla gamba un agente. Nove anni di carcere, la metà dei quali condonati, nonostante il parere contrario della Procura di Bruxelles. Li sconta insieme a Khalid, che l’anno seguente viene condannato a cinque anni per una lunga serie di furti d’auto. Nel 2014 è già fuori. Nel giugno del 2015 viene arrestato a Gazentep, in Turchia, sulla strada per la Siria. Viene estradato in Olanda. Ma torna subito in libertà: per le autorità belghe non aveva legami con il terrorismo.
Falsa identità
I fratelli Bakraoui tornano al disonore della cronaca durante l’inchiesta sulla strage di Parigi. Khalid affitta sotto falsa identità, ma usando la propria carta di credito, l’appartamento di rue de Fort a Charleroi, servito a preparare le cinture esplosive usate il 13 novembre. I fratelli Abdeslam e il loro amico Abdelhamid Abaaoud, la mente del gruppo, ci dormono la notte prima degli attentati. Nel 2010, dopo l’espulsione dal liceo cittadino, Ibrahim El Bakraoui aveva lavorato per qualche tempo nel magazzino di stoffe del quale è proprietario proprio il padre di Abaaoud. Nel covo di Charleroi verranno poi ritrovate anche le impronte digitali del sedicente Soufian Kayal, fino a quel momento sconosciuto. Se ne aggiungeranno altre, nella casa di rue Henri Bergé a Schaerbeek, ovunque vengano trovate tracce dell’esplosivo di Parigi, persino sui resti di quelle usate allo Stade de France e al Bataclan.
Ed è ancora Khalid che affitta la casa di Forest che il 15 marzo viene perquisita dalla polizia credendo fosse disabitata. Quello è il rifugio del latitante più ricercato del mondo ma il più piccolo dei fratelli El Bakraoui non paga la bolletta da tre mesi. Ne nasce un conflitto a fuoco, dove viene ucciso Mohamed Belkaid, alias Samir Bouzid, algerino di 35 anni. È l’uomo al quale Abaaoud invia gli sms prima e durante la strage. Il 17 novembre il suo volto viene ripreso insieme a quello di Laachraoui, alias Soufiane Kayal, da una camera di sorveglianza della filiale Western Union di Molenbeek. Stanno effettuando un versamento a favore di Hasna Ait Boulhacen, la donna che a Parigi, nel quartiere di Saint-Denis, sta cercando un posto sicuro per il cugino Abaaoud. A settembre Belkaid, Laachroui e Salah Abdeslam vengono controllati alla frontiera tedesca. Dicono di essere in vacanza. Prego, continuate pure. Ma è ormai certo che quel viaggio segnasse il ritorno in patria dei due futuri complici, entrambi reduci dalla Siria.
La casa dell’infanzia
La casa all’ultimo piano di una palazzina in rue Max Roos a Schada dove martedì Najim Laachraoui è uscito per l’ultima volta dista poche centinaia di metri da quella dove è cresciuto, orfano di padre. Se davvero è il secondo terrorista suicida dell’aeroporto, la polizia conferma mentre la Procura frena, siamo pur sempre in Belgio, la sua parabola di jihadista è diversa da quella dei suoi complici. Lui ci ha sempre creduto alla jihad. Fu per questo che lo buttarono fuori da scuola. Il suo nome è stato cancellato dal registro dei residenti di Schaerbeek dopo la sua partenza per la Siria, nel febbraio del 2015. Ci aveva già provato nel 2012. Ma Fatima e Najima Abderkan, le organizzatrici di una filiera di aspiranti foreign fighters, vennero arrestate. Sono le zie di Abid, l’uomo che ha offerto l’ultimo rifugio a Salah Abdeslam, portandolo a casa di sua madre, in rue des Quatres Vents, a Molenbeek. Tutto, o quasi, si tiene.
La radicalizzazione di Laachraoui risale a molto prima. Nel 2009, quando aveva solo 18 anni, viene citato spesso nell’inchiesta sull’attentato terroristico avvenuto al Cairo, dove venne uccisa una turista francese. Dagli atti emerge come all’epoca fosse in contatto con Fabien Clain e tale Ben Abbes. Il primo è il predicatore che ha accolto Abaaoud in Siria e ne ha rivendicato le malefatte parigine in nome e per conto dell’Isis. La voce che celebra il massacro del 13 novembre è sua. Il secondo è meno noto, meno importante. Ma nel 2010 venne arrestato perché stava progettando un attentato in una sala di concerti. Era il Bataclan.
Fiorenza Sarzanini per il Corriere della Sera
Sono almeno quattro i terroristi in fuga. Reclutatori e addestratori collegati a Najim Laachraoui, l’uomo delle bombe di Parigi e Bruxelles. Componenti di quella cellula che ha seminato morte in Francia e Belgio e che adesso potrebbe colpire ancora. I servizi di intelligence europei sono in allerta, il timore forte è che non sia finita. Perché le conversazioni captate negli ultimi mesi mostrano quanto l’organizzazione sia ramificata e preparata. Soprattutto perché le indagini svolte finora rivelano che hanno ancora armi ed esplosivi.
Per questo le loro identità sono state trasmesse alle polizie europee. L’obiettivo è afferrare qualsiasi elemento utile a rintracciarli. Il mandato di cattura firmato dalla magistratura belga il 24 febbraio scorso ricostruisce i loro movimenti, i contatti, i covi utilizzati. Dà conto dei viaggi effettuati in Siria, passando dalla Germania, l’attività di reclutamento. Ma svela anche come alcuni fondamentalisti che hanno pianificato e portato a termine gli attacchi al Bataclan, allo Stade de France e poi all’aeroporto Zaventem e alla metropolitana di Maelbeek fossero stati fermati, controllati. E poi sempre rilasciati.
«Ucciderò i nemici di Allah»
Il messaggio lanciato da uno di loro, B.B. in una conversazione intercettata dalla polizia belga, fa ben comprendere quanto alto sia il rischio che entrino nuovamente in azione. L’uomo è partito per la Siria nel dicembre 2012. È arrivato a Düsseldorf, si è spostato in Turchia e poi è arrivato nel campo di addestramento. Chiama in Europa, parla con il suo «contatto» e spiega: «Io non faccio parte dell’esercito siriano libero, io combatto al fianco dei mujahedin per instaurare la legge di Allah e uccidere le persone che si oppongono ad Allah. Adesso sto per tornare in Belgio per uccidere i miscredenti».
Non è l’unico. Secondo le verifiche effettuate negli ultimi mesi proprio ricostruendo gli spostamenti di Laachraoui «numerosi giovani partiti dal Belgio sono morti in Siria sui campi di battaglia, altri sono stati invece feriti e sono rientrati in patria per organizzare le partenze degli altri fornendo soldi, contatti e materiale». Una «rete» di persone perfettamente addestrate nei campi siriani ed evidentemente pronte a immolarsi.
Il viaggio in Austria con Salah
Sono i reclutatori, i complici dei kamikaze che sono riusciti fino ad ora a sfuggire alla cattura. Tra loro anche due fratelli da tempo residenti in Belgio che svolgono attività di proselitismo. Per individuarli si ricostruiscono le mosse di chi è già finito in carcere o si è fatto esplodere. Si torna dunque al 17 febbraio 2013 quando Laachraoui lascia il Belgio, arriva in Turchia e poi si sposta in Siria. «Prima della partenza — annotano gli investigatori — partecipa a numerose riunioni con giovani radicali». Il suo addestramento dura almeno un anno, poi rientra in patria. È nato in Marocco il 15 maggio 1991, ma è di nazionalità belga, risiede a Bruxelles in via Godefroid Guffens 1030.
Il primo controllo ufficiale risale al 9 settembre 2015. È la polizia austriaca a fermarlo. Lui esibisce un documento intestato a Soufiane Kayal, nato in Belgio il 28 agosto 1988. Con lui ci sono Salah Abdeslam, (l’attentatore di Parigi sfuggito alla cattura per quattro mesi e arrestato una settimana fa) e Samir Bouzid. Anche questo è un nome falso. Si tratta infatti di Mohamed Belkaid, l’algerino ucciso il 15 marzo scorso, durante il blitz dei poliziotti belgi nell’appartamento dove si nascondeva Salah.
Il Dna trovato in tre covi
Laachraoui ha lasciato tracce ovunque. Il 15 ottobre 2015 — un mese prima degli attentati di Parigi — il suo falso documento intestato a Soufiane Kayal viene trovato nel corso di una perquisizione «ordinata dalle autorità belghe nei confronti di una rete criminale radicata a Bruxelles e attiva nella contraffazione di documenti». Ma nessun allarme scatta, nonostante sia stato controllato in precedenza.
Soltanto dopo il massacro nella capitale francese si scopre che ha avuto un ruolo decisivo per reperire i tre «covi» utilizzati dalla «cellula» per pianificare le azioni simultanee. È stato lui, proprio utilizzando la falsa identità, «ad affittare l’appartamento di Auvelais».
Il suo Dna — così come quello di Salah e di altri complici — è stato ritrovato il 10 dicembre scorso nel «covo» di via Bergè a Schaerbeek, a Bruxelles, evidentemente scelto come base logistica «visto che nell’abitazione sono state ritrovate tracce di esplosivo». Passa anche nella casa di Charleroi.
Ma ciò che davvero lo inchioda sono i reperti presi «sul giubbotto di un terrorista del Bataclan e sul giubbotto di un terrorista dello Stade de France»: in entrambi i casi il Dna estratto appartiene a Laachraoui. Martedì mattina è all’aeroporto Zaventem. La sua missione finisce quando si fa esplodere in mezzo alla gente. E compie il massacro.